Studiare la Generazione Z è più importante del caso Tavares. Quanto pesa nella crisi dell’Automotive la trasformazione dell’auto e degli automobilisti in simboli tossici della modernità. Numeri, storie e boomerang culturali
Qual è il dito e qual è la luna? Le dimissioni di Carlos Tavares dalla guida di Stellantis possono offrire agli osservatori spunti di riflessione infiniti non solo sulle difficoltà attraversate dal gruppo automobilistico presieduto da John Elkann ma anche su tutta una serie di elementi connessi alla crisi del mondo legato al malandato settore dell’Automotive. Ci sarebbero elementi utili per ragionare attorno alle difficoltà attraversate dal settore automobilistico in Europa. Ci sarebbero elementi utili per ragionare attorno alle difficoltà generate dalla concorrenza cinese. Ci sarebbero elementi utili per ragionare attorno all’impotenza di molti governi, anche di quello italiano, dinanzi alla crisi del settore. Ma nessuno di questi spunti potrebbe aiutarci ad andare alla radice di un fatto persino più interessante dell’addio di Tavares. Un fatto che riguarda quello che forse è il tema dei temi quando si parla oggi delle difficoltà vissute dall’industria automobilistica mondiale. Sintesi brutale: perché trovare qualcuno che compri un’automobile è diventato così difficile?
Una prima risposta per provare a rispondere a questa domanda va naturalmente ricercata alla voce costi. Negli ultimi dieci anni, il costo medio delle nuove automobili in Europa ha registrato un incremento significativo, come si sa. Solo in Italia, il prezzo medio di un’auto nuova è passato dai circa 18.000 euro del 2013 a oltre 26.000 euro del 2023, segnando un aumento del 44,4 per cento. E solo nel 2023, il prezzo medio di un’auto elettrica in Italia è stato di circa 35.130 euro.
La nostra domanda potrebbe dunque esaurirsi con una risposta di questo tipo: le auto costano di più, i salari non crescono abbastanza, l’inflazione galoppa veloce e al netto degli incentivi dello stato l’idea di comprare un’auto è diventata una prospettiva meno sexy rispetto a qualche tempo fa. I numeri, però, sono freddi, algidi, e non ci aiutano a cogliere fino in fondo il senso di una questione importante, generazionale, storica, che più che di carattere economico è di carattere culturale. E il punto in questo caso è questo: la crisi del settore dell’Automotive nasce anche per ragioni ideologiche, per conseguenze cioè legate agli effetti di lungo termine generati dalla lenta e inesorabile demonizzazione dell’auto. Non è solo, come si dice, un tema legato alla fine dell’automobile come status symbol, della fine di quella stagione magica durante la quale ottenere una patente di guida era un rito di passaggio verso l’età adulta. Il tema è più sottile e riguarda gli effetti di lungo termine della trasformazione dell’auto nel simbolo nocivo di tutto ciò che rappresenta la modernità e dunque il capitalismo.
L’auto inquina, l’auto uccide, l’auto ingombra, l’auto disturba, l’auto è pericolosa, l’auto è un peso, l’auto è contro l’ambiente, l’auto è un pericolo per la nostra vita, l’auto è un pericolo per le nostre città, l’auto non deve andare in centro, l’auto deve essere tassata di più, l’auto è un intralcio al tentativo dei politici più genuini di restituire la città ai propri abitanti, come ha avuto modo di dire la sindaca verde di Parigi Anne Hidalgo. In questo senso, la crisi dell’auto è figlia di un evidente processo di demonizzazione dell’automobile, processo che di riflesso investe anche gli automobilisti divenuti tutti dei furfanti fino a prova contraria, quando ormai gli automobilisti in una strada in città sono gli unici spesso che rispettano regole che di norma non rispettano i ciclisti che si muovono allegramente contromano, i monopattini che si sentono metà pedone e metà motorino, i pedoni che usano le strisce pedonali solo quando tutto il resto della strada è già occupato da altri pedoni.
E inevitabilmente, la demonizzazione dell’auto ha avuto come primo effetto quello di trasformare le uniche auto che per molto tempo hanno avuto un prezzo accessibile, quelle a motore a scoppio, benzina e diesel in pericoli per l’umanità. Una auto non elettrica non è più da tempo socialmente presentabile, sia nei salottini sia nei centri storici, ma un’auto elettrica a sua volta non è invece economicamente sostenibile. E l’unica auto sostenibile per le tasche di chi non può permettersi di spendere 30 mila euro per un’auto non a motore a scoppio è un’auto figlia a sua volta di un’altra demonizzazione: quelle cinesi, uniche auto ormai a prezzi accessibili (la macchina più economica della Byd, casa automobilistica cinese, costa 8.900 euro). Maurizio Crippa, sul Foglio, ha scritto che in circolo, sul tema delle auto, vi è qualcosa di ancora più profondo, “un odio antropologico contro l’automobile e chi la guida che sorpassa pericolosamente a destra il problema del bene comune”.
E chissà che il processo di demonizzazione delle auto non sia alla base anche di un altro fenomeno che riguarda un particolare segmento del mondo degli automobilisti: il totale, progressivo e clamoroso disinteresse per le auto delle nuove generazioni. I dati, in questo caso, ci possono aiutare a capire meglio il fenomeno. Nel 1997, il 43 per cento dei sedicenni statunitensi possedeva una patente di guida, nel 2020, questa percentuale è scesa al 25 per cento. Nel 1983, solo un americano su dodici, tra i 20 e i 24 anni non aveva la patente, mentre nel 2020 questa proporzione è arrivata a uno su cinque. Negli ultimi vent’anni, la percentuale di adolescenti britannici con patente è scesa dal 41 per cento al 21 per cento. Dal 2011 al 2021, il numero di auto intestate a giovani sotto i 25 anni in Italia è diminuito del 43 per cento, passando da oltre un milione a 590 mila unità. E infine: tra il 1990 e il 2017 la distanza percorsa dai conducenti adolescenti negli Stati Uniti è diminuita del 35 per cento e quella dei conducenti di età compresa tra i venti e i 34 anni è scesa del 18 per cento. Le ragioni di questa disaffezione dei più giovani, soprattutto la Generazione Z, i nati tra il 1996 e il 2010, possono essere molte. C’entra sicuramente il costo delle auto, e le generazioni più giovani sono quelle più vulnerabili ovviamente ai prezzi che aumentano. C’entra probabilmente il fatto che la tecnologia, rendendo facile fare acquisti online o guardare film in streaming a casa, ha reso meno impellenti di un tempo, nei grandi centri abitati, le ragioni per prendere l’auto per spostarsi.
C’entra probabilmente anche un pizzico di ideologia, e le generazioni più sensibili alla sostenibilità non potendosi permettere un’auto elettrica potrebbero avere un senso di colpa in più a possedere una macchina più inquinante, ma queste sono solo supposizioni. Probabilmente, piuttosto, in questo caso c’entra molto anche la possibilità di avere alternative in città, all’utilizzo delle macchine, car sharing, bike sharing, mezzi pubblici, e alternative maggiori anche per spostarsi da una città all’altra, treno, pullman, aerei, pazienza se inquinanti. Sintesi estrema. Le auto che potremmo permetterci non sono sostenibili culturalmente (motore a scoppio, il male assoluto). Quelle che dovremmo permetterci non sono sostenibili economicamente (il motore elettrico). Quelle che potremmo ancora permetterci non sono sostenibili politicamente (quelle cinesi). Gli automobilisti del futuro, per ragioni insieme pratiche e ideologiche, hanno perso interesse per le auto, hanno di fronte a sé auto che non possono permettersi, hanno alternative infinite per i propri riti di passaggio all’età adulta e non ci vuole molto a capire di fronte alla parabola di Tavares qual è il dito e qual è la luna. Il dito è Stellantis. La luna è un mondo che cambia e che in troppi vogliono provare a cambiare senza fermarsi un attimo per provare a capirlo.