L’assalto ad Aleppo, il terrorismo e quel che significa per noi il riesplodere della guerra in Siria

Le difficoltà del regime di Assad e dell’Iran rappresentano un punto a favore dell’occidente, perché costringono la Russia a distrarre risorse dal fronte ucraino. Ma i jihadisti che rialzano la testa sono un rischio. E poi c’è la questione migranti

Il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele in Libano è probabilmente la sola notizia positiva arrivata dal Levante negli ultimi 14 mesi. Nell’immediatezza della sua entrata in vigore, esso è stato già più volte violato dall’esercito israeliano, che ha colpito posizioni e personale di Hezbollah nell’esercizio del “diritto all’autodifesa”, riconosciuto al punto 4 dell’agreement, ma da esercitarsi “in accordo col diritto internazionale” e non nell’accezione amplissima e soggettiva con la quale l’Idf lo interpreta, e che comunque non contempla in alcun modo la possibilità di condurre operazioni militari contro target di Hezbollah che non rappresentino una minaccia puntuale. Com’è noto, l’agreement prevede anche una modifica sostanziale del Meccanismo tripartito (Unifil, Libano, Israele) che finora regolava le relazioni tra gli attori nell’area a sud del Litani, introducendo Francia e Stati Uniti, questi ultimi in funzione apicale, a detrimento dei poteri e delle competenze del vertice politico-militare della missione Onu. È un cambiamento non da poco, che rischia di far perdere terzietà all’intero contingente. Vedremo se a questo corrisponderà una maggiore efficacia nel garantire la pace, la sicurezza della popolazione civile, e l’inviolabilità della sovranità del Libano.



Per intanto occorre osservare come l’allargamento del conflitto di Gaza al Libano, lungi dal determinare le condizioni di una maggiore sicurezza sul confine con Israele, abbia contribuito in misura certa al riesplodere della guerra civile in Siria. I durissimi colpi patiti da Hezbollah e dallo stesso Iran hanno oggettivamente indebolito la posizione del regime di Assad, che proprio del loro sostegno si erano avvalsi per non soccombere alle forze jihadiste: un apporto decisivo almeno fino al coinvolgimento diretto della Russia. Con Mosca sempre più assorbita nella devastante guerra ucraina, le milizie jihadiste hanno rialzato la testa e conquistato Aleppo.

Dietro di loro si muove la Turchia, che ne arma e ne dirige una componente, e che sembra aver deciso di ridare vigore al suo piano di creare una zona cuscinetto sul suo confine meridionale, e di regolare una volta per tutti i rapporti con i curdi del Rojava. Il nuovo attivismo turco rimette in discussione quell’allineamento tra Mosca, Teheran e Ankara raggiunto nel 2022 che aveva tanto preoccupato Washington ma anche le capitali delle monarchie del Golfo. Queste ultime avevano apertamente supportato le milizie legate ad al Qaida (come Jabhat al Nusra), mentre avevano contrastato quelle legate all’Isis (i cui accoliti sono stati invece reclutati dalle formazioni finanziate e dirette da Ankara). Benché ad Aleppo e Iblid siano proprio gli eredi di Jabat al Nusra a rivendicare il successo, è palpabile il nervosismo di Riad alla prospettiva di un Isis risorgente. Per quanto ostili al regime di Assad e al suo protettore iraniano, i sauditi non vedono con favore il possibile ritorno di una minaccia islamista. Ed è da ritenersi che parimenti cresca l’irritazione verso le mosse di Benjamin Netanyahu, che con la sua avventatezza sta rendendo sempre più elevato il prezzo politico dell’attuabilità degli Accordi di Abramo.



Dal punto di vista occidentale, le difficoltà del regime di Assad e dell’Iran rappresentano evidentemente un punto a favore, perché costringono la Russia a dover distrarre risorse politico-militari dal fronte ucraino, soprattutto di fronte alla prospettiva di veder minacciate le proprie basi navali di Tartus e Latakia in Siria, sempre più cruciali rispetto alle pressioni da esercitare sul Mediterraneo, in Africa e sul fronte sud di Nato e Ue. Ma il prezzo di una possibile recrudescenza della minaccia jihadista in Europa preoccupa notevolmente le capitali europee. Nel passato recente è questo il terrorismo che ha mietuto più vittime in Europa e non quello riconducibile alla questione palestinese. Meno immediate appaiono invece le conseguenze sui flussi migratori in grado di interessarci direttamente.



In termini regionali, poi, la recrudescenza della guerra civile siriana potrebbe coinvolgere lo stesso Libano, tanto nella zona di Sidone a sud, quanto in quella di Tripoli a nord, come peraltro era già accaduto nel 2014. Rispetto agli jihadisti l’azione di contenimento di Hezbollah era stata decisiva per consentire alle Laf di averne ragione. Mentre invece dovrebbe preoccupare le autorità israeliane la possibilità che il conflitto si avvicini al Golan occupato. Negli anni più duri della guerra civile siriana l’assistenza medica prestata da Israele ai miliziani jihadisti che combattevano contro le forze lealiste aveva provocato forti tensioni con il drusi del Golan (normalmente fedeli verso lo stato ebraico) proprio per le responsabilità di queste formazioni nei violenti attacchi ai villaggi drusi situati oltre la linea di demarcazione della guerra del Kippur.



Ancora una volta, la pretesa di Netanyahu di imporre con la forza delle armi un ordine regionale più favorevole agli interessi di Israele si conferma non solo velleitaria ma estremamente pericolosa e in grado di destabilizzare l’intera regione, oltre che dimostrare la precarietà e la volatilità delle alleanze in tutto il medio oriente.

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