La demografia differenziata e i troppi pezzi dell’Italia

Di figli se ne fanno pochi dappertutto, ma le regioni non sono messe tutte allo stesso modo, sia nel lungo che nel breve periodo. Aumenti consistenti nel nord, mentre nel Mezzogiorno va tutto male, ma con poche eccezioni Ecco com’è possibile

L’interprete principale è un cane. Come si aggiusta lo spettacolo, commedia o concerto che sia, se l’interprete principale è un cane? Non si aggiusta, a meno che l’interprete non possa essere sostituito. E non è questo il caso, l’interprete principale è inamovibile. Se ne può almeno migliorare la performance? Difficile, al limite dell’impossibile. Se le cose stanno così, inutile girarci attorno, non resta che prepararci psicologicamente al disastro. Ulteriore precisazione: l’interprete è quello che è, quale che sia l’occasione.



L’interprete principale della commedia demografica è il tasso di fecondità: numero medio di figli per donna. Che in Italia sta a 1,2 figli in media per donna – invertite l’ordine delle cifre, conservando la virgola, e troverete i figli che servirebbero per tenere, nell’ipotesi di un saldo del movimento migratorio in parità, la popolazione italiana in una posizione stazionaria. Che l’interprete principale non sia all’altezza lo si vede anche da due caratteristiche che si concede di assumere, sicuro dell’impunità: 1) è sceso a 1,2 dall’1,44 del 2010, che pure allora ci sembrò insopportabilmente basso, perdendo scampoli anno dopo anno; 2) non fa preferenze, a seconda della piazza dove si esibisce: 15 regioni italiane su 20 hanno un valore del tasso di fecondità che oscilla tra 1,1 e 1,2, ovvero, nella sostanza, nessuna oscillazione. Il valore più basso è della Sardegna: 0,9; quello più alto del Trentino: 1,4. Quello più basso è impossibilmente basso; quello più alto è comunque basso. Ma, tranquilli: in Sardegna la sua esibizione da morto che cammina – ma che come i morti che camminano ha la capacità di sterminare una popolazione – non ha sollevato un battito di ciglia alle elezioni regionali di questo febbraio, vinte dalla sinistra che, da che mondo è mondo, ma massimamente nell’oggi, dell’esibizione del signor tasso di fecondità se ne impipa altamente. Ma non è questo il punto; trattasi di articolo non politico. Questo è paradossalmente un articolo di demografia differenziata. Il perché del paradosso è presto detto: che c’è da differenziare se il signor tasso di fecondità così tetragono da detestare anche il più modesto spostamento è lo stesso nei tre quarti delle regioni italiane?



E invece, incredibile a dirsi, c’è molto da differenziare nel senso e nel seno delle regioni; non tanto in merito al nostro imperturbabilmente asfittico protagonista, bensì alla rappresentazione nel suo complesso, modificata dall’esibizione degli interpreti non protagonisti. I quali o decidono di seguire, come per solidarietà sindacale, il livello performativo del protagonista o se ne discostano per salvare almeno la faccia. Risultato: partite le regioni tutte pressoché alla pari, il loro arrivo sulla fettuccia del traguardo è quanto di più alla spicciolata ci si potrebbe aspettare. Un arrivo differenziato. Una demografia differenziata. Che richiama ovviamente l’autonomia differenziata chissà se definitivamente affondata o parzialmente salvata dal verdetto della Corte costituzionale – che, al netto di tutte le approssimazioni, non l’ha comunque dichiarata incostituzionale. Come che sia: che formidabile consonanza di spirito, parrebbe: l’autonomia regionale differenziata nel corpo di una demografia regionale differenziata. Ma se la seconda è differenziata certamente, la prima è differenziata chissà. E tuttavia, tutto è differenziato in Italia, tra le regioni. Sono differenziati i livelli di pil, il reddito pro capite e quello per famiglia, l’incidenza della povertà, l’efficienza dei servizi pubblici, la qualità della vita. E, appunto, gli andamenti demografici. Che non sono fortunatamente opera di un solo interprete (cane), anche se da lui, dal numero medio di figli per donna, per buona parte dipendono.



Ma prima di entrare nello scenario demografico regionalmente differenziato, occorre precisare una novità dell’andamento generale del paese. Che è questa: tra il primo gennaio 2023 e il 31 agosto 2024 (data ultima di aggiornamento dei dati al momento in cui scriviamo) gli abitanti dell’Italia sono aumentati di 118 mila, e dello 0,2 per cento. Aumentati. Passati incredibilmente da 58 milioni e 851 mila a 58 milioni e 969 mila. Ma come, dalla Population Division dell’Onu al nostro Istat, giù tutti a dirci che precipiteremo e invece ci teniamo benissimo in quota? Ora, detto che i disastri sono previsti più in là nel tempo, il chiarimento che occorre fare al riguardo attiene giustappunto agli interpreti. Perché per un protagonista che non regge la scena, dimentica le battute, non è mai a tempo, altri ce ne sono che compensano la loro minore importanza con applicazione e tenacia lodevoli.



Si prenda il numero dei morti. Quello dei nati, stante il tasso di fecondità che si è visto (1,2 figli in media per donna) è peggio che ai minimi termini: sono 17 anni che scende, ininterrottamente. Lo farà anche nel 2024, quando si aggirerà attorno alle 370 mila unità: 200 mila nascite in meno rispetto all’inizio del duemila. Un precipitare al quale non si riesce a mettere un freno. Ora, si pensi: nel 2020, anno della pandemia i morti sono stati 740 mila, giusto il doppio dei nati di oggi. Si può reggere un dislivello di questa grandezza? No. E infatti quest’anno i morti saranno grossomodo 100 mila in meno, rientrando così nei livelli di mortalità pre-covid, se non perfino più bassi. Così, il primo dei comprimari dà una mano non da poco alla causa per salvare lo spettacolo. Mano che arriva ancora più salda da quello che, partito per svolgere un ruolo secondario, si ritrova scaraventato a salvatore della patria nell’ambaradan della popolazione italiana. Altro che attore non protagonista della rappresentazione: il movimento migratorio con l’estero, il cui saldo positivo possiamo valutare tra le 250-280 mila unità all’anno, che diventano abitanti in più dell’Italia, si erge ormai ad arbitro delle sorti demografiche del bel paese. Conclusione: se l’attore principale riesce a combinare disastri, gli altri riparano come meglio non potrebbero.



Ma scendendo dalla scena nazionale al dettaglio delle regioni, ecco che entra in ballo un terzo comprimario, che vale zero a livello nazionale, e parecchio a livello regionale: vale a dire il movimento migratorio tra le regioni, ovvero i trasferimenti di residenza da una regione all’altra, che si compensano a livello nazionale (quel che perdono certe regioni lo guadagnano altre) ma nient’affatto a quello regionale; e infatti vengono premiati dai trasferimenti di residenza interregionali le regioni del nord, che guadagnano, a scapito di quelle del sud, che perdono. Ed è così che prende forma attorno all’interprete principale che provoca danni quasi equidistribuiti un concerto di voci che arriva a determinare un risultato insperato a livello nazionale – più abitanti anziché meno – e risultati differenziati, parecchio differenziati, a livello regionale.

E’ il momento di entrare in questa differenziazione. Lo faremo accontentandoci di fotografarla nel suo risultato ultimo – più o meno abitanti – e di individuarne, nel bene come nel male, i responsabili.


La popolazione italiana ha aumentato ininterrottamente gli abitanti fino al 2013 – anno in cui ha raggiunto il suo massimo di sempre: 60 milioni e 345 mila. Poi dal 2014 al 2022 ha perso quasi 1,7 milioni di abitanti e sembrava avviata al peggio mentre, come si è detto, ne ha di nuovo guadagnati. Oggi l’Italia ha una popolazione di poco inferiore ai 59 milioni: rispettivamente due milioni in più degli abitanti d’inizio secolo e circa 120 mila in più del 2022, anno dopo il quale si assiste a una inattesa ripresa. Questo a livello nazionale. Anche a livello delle singole regioni possiamo valutare una differenza di lungo periodo, tra l’oggi e l’inizio del duemila, e un’altra, invece attuale, tra l’oggi e la fine del 2022.



Vediamo le differenze di lungo periodo, considerando che tra oggi e l’inizio del Duemila l’aumento della popolazione italiana è stato del 3,5 per cento. Grandi aumenti rispetto all’inizio del Duemila: al nord di Trentino-Alto Adige (+16 per cento), Emilia Romagna (+12,5 per cento) e Lombardia (+ 11,5 per cento); al centro del Lazio (+11,8 per cento). Aumenti consistenti, ma non grandi: al nord del Veneto (+7,6 per cento), al centro della Toscana (+4,9 per cento). Nessun aumento né grande né consistente in alcuna regione del Mezzogiorno, dove il solo Abruzzo segna un lievissimo aumento (+0,7 per cento).



Grandi perdite si hanno nel Mezzogiorno: in Basilicata (-11,2 per cento), in Molise (-10 per cento), in Calabria (-9,2 per cento). Perdite consistenti: sempre nel Mezzogiorno, in Sardegna (-4,4 per cento) e al nord in Liguria (-4,4 per cento). Nessuna regione del centro perde abitanti nel lungo periodo. Si tratta ora di vedere se gli andamenti recenti confermano o no quelli di lungo periodo. Le differenze di breve periodo, vanno considerate alla luce del fatto che la popolazione italiana è aumentata dello 0,2 per cento tra oggi e la fine del 2022. Rispetto all’anno 2022: Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Lombardia fanno segnare uno stesso grande aumento dello 0,9 per cento. Ci sono poi aumenti consistenti: della Liguria, al nord (+0,5), e della Toscana al centro (+0,4 per cento). Non si hanno aumenti nelle regioni del Mezzogiorno. Grandi perdite si riscontrano in Basilicata (-0,9), Sardegna (-0,8), Puglia (-0,6 per cento). Perdite consistenti in Sicilia e Calabria, entrambe a -0,4 per cento.


Gli andamenti a breve confermano quasi del tutto quelli di lungo periodo con le eccezioni: della Liguria che passa da un risultato negativo nel lungo periodo a un risultato positivo a breve; della Sardegna e della Puglia che passano nel breve periodo in territorio più decisamente negativo; del Lazio, che vede nel breve periodo frenata la sua espansione.



Il quadro di vincitori e vinti, con tutte le sfumature intermedie del caso, è allora il seguente: vincono la partita demografica tre regioni del nord: Trentino-Alto Adige, Lombardia, Emilia Romagna. Vincono senza convincere: il Veneto al nord, la Toscana e il Lazio al centro. Perdono la partita: la Basilicata, maglia nera, la Calabria e il Molise, la Sardegna. A forte rischio di entrare tra i perdenti, la Puglia. Tra vincitori e vinti una terra di mezzo di mediocrità ondeggiante: al nord con le regioni di Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Friuli-Venezia Giulia; al centro con quelle di Marche e Umbria; nel Mezzogiorno con quelle, ma più tendenti al negativo, di Abruzzo e Campania.



In sintesi molto più che estrema. Al nord va tutto bene, ma con qualche eccezione. Nel Mezzogiorno va tutto male, con poche eccezioni. Il centro tiene, ma con affanno. E dunque, punto primo: non tutto, ma indubbiamente molto, è spiegato con la classica tripartizione dell’Italia. Punto secondo: vanno male o non bene tutte le regioni piccole come dimensioni demografiche: Basilicata, Molise, Valle d’Aosta, Umbria. Il detto “piccolo è bello” demograficamente parlando è più che una sciocchezza, è una bestemmia. Punto terzo: se si esclude il Trentino-Alto Adige, soffrono di più tutte le regioni con una bassa densità di abitanti: e dunque, di nuovo, Valle d’Aosta, Basilicata, Molise e Umbria, ma anche Sardegna, Calabria e Abruzzo.



Questo il quadro. Differenziato, dunque. Ma non tanto per l’effetto delle nascite – tra poche e pochissime ovunque, in rapporto alla popolazione; o delle morti – più o meno, per nostra fortuna, in contrazione ovunque. A fare la differenza sono sempre di più le prestazioni di chi una volta stava ai margini della scena e oggi su quella scena giganteggia: gli spostamenti territoriali. Da e con l’estero e tra le regioni. Il movimento migratorio con l’estero è positivo in tutte le regioni italiane: ma in particolare al nord, e in regioni del centro come la Toscana e il Lazio, molto meno al sud e nelle isole. Gli spostamenti territoriali tra le regioni vedono consistenti perdite di regioni del Mezzogiorno, come la Campania, la Sicilia e la Calabria a favore, ancora, di Lombardia e Veneto, Emilia Romagna e Toscana. Il risultato è quello che si è detto. Non un’Italia, demograficamente parlando, ma più Italie, tante Italie. Una differenziazione che, a stringere, da un lato rispecchia e dall’altro consegue a tutta una serie di altre differenziazioni che non accennano ad appianarsi e che sono di tipo economico, socio-politico, culturale. In questo rispecchiamento vale anche il silenzio che come una nebbia impenetrabile copre i pessimi andamenti, anche recenti, di quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, a cominciare da quella Sardegna record del mondo in negativo, con la Corea del Sud e alcune aree della Cina, del tasso di fecondità: 0,9 figli in media per donna.



Si può rispondere a differenziazione con differenziazione? A quella demografica con una amministrativa e istituzionale? Magari no. Magari ha ragione chi dice ch’è come volere aggiungere a differenza ulteriore differenza. Ma, con buona pace dei sostenitori, tantissimi, della strategia che è sempre meglio non toccare niente, qui qualcosa bisognerà pur cercare di introdurre non nel cuneo che separa un’Italia dall’altra, ma nei tanti divari demografici che stanno a separare tra di loro troppi pezzi d’Italia. E che diventeranno voragini incolmabili domani, a forza di non toccare niente.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.