Tutti sanno che c’è ma nessuno ne parla. E conviverci è naturale. L’obiettivo? Scoraggiare i cittadini che, oberati da una quotidianità frenetica e spesso disinteressati alla politica, si accontentano di informazioni facilmente accessibili. Racconti dall’Università di Xi’an
Dato che da anni mi occupo di censura per mestiere – censura ecclesiastica in età moderna, indice dei libri proibiti, roghi, sequestri e riscritture di libri – ho accolto l’invito a parlare in un’università cinese come un regalo inatteso: dove mettere alla prova le mie idee meglio che in un paese in cui non solo la censura esiste ma è rivendicata con orgoglio, dove la libertà di parola non c’è e lo si dice apertamente, serenamente? Perché in Cina la censura c’è sempre stata. Durante il periodo maoista (1949-1976) si trattava di un sistema di controllo onnipresente e repressivo, fondato per lo più sulla paura: il Partito comunista cinese (Pcc) controllava tutti gli aspetti della vita dei cittadini, dalla stampa ai luoghi di lavoro alle scuole. Una forma di censura che soffocava la crescita economica e l’innovazione tecnologica aumentando al tempo stesso il rischio di rivolte o reazioni della popolazione.
Quando Deng Xiaoping andò al potere nel 1978 avviò un percorso di riforme e di apertura al mondo esterno, imponendo forme di controllo meno soffocanti. Comprese che la distrazione di massa e la difficoltà di accesso a contenuti sensibili erano ricette più efficaci delle rigide proibizioni. In altre parole, comprese che la strada maestra per il rafforzamento del potere del Pcc e la stabilità della società cinese passava per la costruzione di un consenso controllato, non per l’applicazione di severe misure repressive. Da una parte rese sempre più difficile, ma non impossibile, l’accesso all’informazione e in particolare ai contenuti sensibili, dall’altra cercò di distrarre i cittadini da informazioni scomode saturando il panorama della comunicazione pubblica con contenuti approvati dal governo.
Dopo Tienanmen, e con l’avvento di internet, il governò affinò questa strategia di controllo finalizzata a minimizzare la percezione della censura da parte dei cittadini. Il Grande Firewall, introdotto nel 1998, blocca l’accesso a siti web stranieri, alle principali app che siamo abituati a utilizzare nel mondo occidentale, ma i cittadini più determinati possono aggirarlo con le Vpn, uno strumento per trasmettere dati sulle reti virtuali pubbliche in modo anonimo e sicuro, correntemente utilizzato anche dai cittadini stranieri che frequentano la Cina o dagli uomini d’affari cinesi che hanno rapporti con l’occidente. La rimozione di post sui social media, la manipolazione dei risultati di ricerca e le restrizioni all’attività dei giornalisti contribuiscono a creare un ambiente in cui l’informazione scomoda è presente, ma nascosta, frammentata e difficile da raggiungere. L’obiettivo non è censurare completamente, ma scoraggiare. I cittadini cinesi, oberati da una quotidianità frenetica e spesso disinteressati alla politica, si accontentano delle informazioni facilmente accessibili, ignorando quelle che richiedono tempo e sforzo. Questo meccanismo si rivela tanto più efficace quanto più la sua natura politica è celata, mascherata da problemi tecnici o attribuita a cause non governative.
L’invenzione più astuta è stata, anni fa, quella dell’Esercito dei cinquanta centesimi, cittadini funzionari (le stime più attendibili ne contano quasi 100 mila) assunti per postare sui social media commenti di sostegno al governo. Il nome deriva dal compenso che ricevevano inizialmente, circa 600 renminbi (oggi all’incirca 75 euro) al mese, con un incentivo di 50 renminbi per ogni commento postato. Ma va forte anche l’app Xuéxí Qiángguó, lanciata dal Pcc e scaricata più di settanta milioni di volte dallo store digitale di Huawei, un’app che invita gli utenti ad accumulare punti fedeltà rispondendo a quiz sulla filosofia politica del presidente Xi, oppure ascoltando i suoi discorsi pubblici e seguendo fedelmente le sue attività giornaliere.
Invece di confutare le critiche, il governo cinese preferisce infatti promuovere messaggi positivi, celebrare successi e alimentare il nazionalismo. In questo modo i cittadini, sommersi da un mare di informazioni, faticano a distinguere la propaganda dalla realtà e si concentrano sui temi proposti dal governo. Molti non si rendono nemmeno conto di tali meccanismi e, anche quando hanno il sospetto della loro esistenza, spesso preferiscono ignorare il problema. Le informazioni sensibili continuano a circolare, ma solo tra coloro che sono disposti a dedicare tempo e risorse per trovarle. Questa selettività crea una divisione tra élite e masse. Gli intellettuali, i dissidenti e gli attivisti, dotati di maggiori competenze e motivazioni, riescono ad accedere alle informazioni censurate, con tutti i rischi del caso, mentre la maggior parte della popolazione rimane intrappolata nel flusso controllato dal governo.
All’università di Pechino, dove si parla inglese, si è parlato di censura con la massima libertà (davvero). Con i miei interlocutori ho capito però che era opportuno fare riferimento esclusivamente all’età moderna, lasciando stare l’oggi, il qui, insomma la Cina. Anche gli studenti si attengono a questa regola non scritta: quando intervengono parlano di dinastia Ming e Qing, di come funzionava cioè l’apparato censorio nella Cina imperiale. Sia io che loro però, come chiunque altro in quell’aula, sappiamo di non stare parlando solo del passato. La sensazione che ho avuto chiacchierando, prima e dopo il seminario, con i colleghi che mi hanno accolto è quella di individui perfettamente consapevoli del sistema di controllo nel quale sono immersi, altrettanto consapevoli del fatto che la situazione privilegiata della quale godono (utilizzano tranquillamente le Vpn dai loro computer di facoltà, hanno accesso, anche per ovvi motivi professionali, a informazioni che la grande maggioranza dei cittadini non condivide) è condizionata da una serie di accorgimenti autocensori senza i quali tali privilegi sarebbero messi in discussione. La grande maggioranza degli intellettuali in Cina convive con la censura trovando di volta in volta il modo più appropriato per esprimere la propria opinione senza attirare l’attenzione delle autorità.
La censura è interessata a limitare l’azione collettiva, silenziando i commenti che stimolano la mobilitazione sociale, indipendentemente dal loro contenuto. L’obiettivo è prevenire attività collettive che si stanno svolgendo in quel momento o potrebbero verificarsi in futuro. I post contenenti critiche, persino aspre, nei confronti del governo, dei suoi leader e delle sue politiche non vengono invece censurati, semmai vengono resi meno visibili. E tuttavia, chi interviene nel dibattito pubblico, chi posta sui social su temi sensibili deve esercitare la giusta dose di autocensura. In questo caso l’impulso a rivedere la scrittura non deriva da un’esplicita indicazione esterna del censore, ma origina piuttosto da una coscienza tormentata, desiderosa di accondiscendere al potere o, più spesso, di prevenirne l’intervento. Il dialogo, in queste circostanze, si svolge tutto internamente all’animo dell’autore, in un confronto tra ciò che lo scrittore desidererebbe dire e la percezione, più o meno corretta, di ciò che il potere vorrebbe ascoltare: il contraddittorio, in altre parole, non è più, o non è solo, tra l’autore e il censore, ma è soprattutto una questione riguardante l’autore e il suo super-io censorio.
In effetti, non era scontato neppure parlare pubblicamente del rapporto tra politica e intellettuali, tema per il quale mi hanno invitato all’Università di Xi’an. Se ne può parlare liberamente sì, ma meglio attenersi anche in questo caso alla regola aurea, nessun cenno alla realtà cinese. Il dibattito che segue il mio intervento vira su populismo, nazionalismo, crisi della democrazia occidentale. Il tema accende gli studenti, discutiamo per più di mezz’ora. Senza nominare la Cina neppure una volta. Durante il seminario ho parlato di Palmiro Togliatti e dei suoi sforzi per tenere il Pci in equilibrio tra la lealtà ai valori democratici repubblicani e la fedeltà al comunismo internazionale. Devo essere stato efficace, perché nel corridoio vengo raggiunto da uno studente che mi dice di aver appena scelto, come suo nome italiano (si fa, lo fanno per gentilezza nei confronti dei loro interlocutori occidentali), il nome Palmiro.
L’indomani ho la possibilità di spendere una giornata intera con quattro di loro. Si sono offerti di accompagnare me e mio figlio a vedere l’esercito di terracotta. Il più estroso (no, non Palmiro) non è contento di vivere in un mondo per molti versi parallelo a quello occidentale, un mondo del quale non solo percepisce distintamente l’esistenza ma verso il quale prova una certa attrazione. Non è contento di esserne per molti versi escluso ma fa molta fatica ad ammetterlo. Intuisce il suo malcontento, specie se sollecitato dalle mie domande educatamente intrusive, ma non riesce a esplicitarlo. Incalzato dagli affettuosi interrogativi che gli rivolgo, si scuote per un momento e pensa che sì, sarebbe bello se la censura non ci fosse, se lui potesse informarsi senza vincoli sul paese che ama, l’Italia, informarsi liberamente su ciò che avviene in Cina e nel resto del mondo, ma che no, non è proprio pensabile manifestare il proprio dissenso, è severamente proibito, dunque punto e a capo, si cambia argomento.
La censura si vive, si subisce più o meno passivamente, non se ne parla, non avrebbe senso parlarne. E’ la realtà. Inutile scontrarsi con qualcosa che è lì da sempre e sempre rimarrà. Quando studio la censura nell’Italia della Controriforma immergendomi nelle carte dell’Inquisizione di cinquecento anni fa, ho la stessa percezione che avverto parlando con questi ragazzi. Le generazioni nate nei primi decenni del Cinquecento vivevano la censura come una novità, un elemento transitorio che non esisteva quando studiavano e si formavano nelle scuole e nelle università delle loro città, qualcosa destinato possibilmente a passare, in ogni caso qualcosa che poteva essere messo in discussione, se non apertamente contestato. Chi invece era nato nella seconda metà del Cinquecento – l’Inquisizione venne riorganizzata e centralizzata nel 1542 e il primo indice dei libri proibiti è del 1559 – era nato insieme alla censura, la percepiva come un elemento strutturale della società in cui viveva, qualcosa con cui imparare a convivere, con il passare dei decenni come un semplice elemento della realtà, certamente non qualcosa di contestabile.
La censura è la normalità, i cinesi sanno che non devono e soprattutto non possono protestare e non percepiscono la mancata libertà di parola su certi temi come una privazione né tantomeno come una violenza o un sopruso. Si fa altro. Una ragazza seduta accanto a me davanti al suo portatile, siamo in un fast food, uno Shake Shack in una zona centrale di Pechino dove mi porta mio figlio, sta per lasciare il suo lavoro, un bel lavoro apparentemente, collabora con l’Economist, non capita a tutti, specie agli inizi della carriera. Poi mi spiega che lei non può firmare gli articoli, è solo la research assistant di una giornalista perché i corrispondenti accreditati sono pochi, sta scrivendo sul tema del conflitto tra figli e genitori, qualcosa di normale, direi fisiologico per tutti gli adolescenti che però, mi fa osservare lei, i giovani cinesi vivono in modo diverso dai coetanei di altri paesi: sia perché il conflitto è malvisto da una società che insiste, anche in ragione della sua tradizione culturale e religiosa, sul tema dell’“armonia”, personale, famigliare, professionale, sia perché si sa che da figli unici è più difficile entrare in una dinamica conflittuale con i propri genitori e solo da poco è cambiata la politica del figlio unico imposta dal governo, ora tutti fanno due figli, sono anche previsti incentivi economici, come da noi con le auto e i motorini elettrici. Lei sa che non può continuare, non può essere quella la sua strada, almeno fino a quando resterà nel suo paese. Si vuole dedicare ad altro, scrivere fiction. Vuole liberare la sua creatività e sa che lavorando per i giornali non le sarà possibile. Non vive però questa condizione come una privazione, “quando andrò all’estero scriverò per giornali stranieri” dice semplicemente. Anche questo in fondo è un successo della censura: disciplinare i comportamenti dei cittadini senza essere percepita come tale.