Esiste un Forum di San Paolo che riunisce tutte le sinistre. Le accuse a Lula di essere di fatto d’accordo con Maduro e le proteste di Boric. Il triello in Bolivia e la diaspora da Cuba e dal Venezuela
“Non dire stupidaggini!”. “Stai zitto, moccioso!”. “Mi metti paura!”. “Ma prenditi una camomilla!”. “Vigliacco!”. “Ti farei arrestare!”. “Vergognati!”. “Sei inaffidabile!”. “Dittatore!”. “Golpista!”. “No, golpista tu!”. “Ti mando in galera, stupratore!”. “Ma ti denuncio io, all’Onu!”. Non è una rissa da bar, e neanche un talk-show di quelli un po’ trash. E’ il tono del dibattito di questi ultimi mesi tra capi di stato e leader esponenti di quello che Chávez aveva battezzato “socialismo del XXI secolo”, e la stampa mondiale aveva definito “marea rosa”.
E’ esattamente il 30 gennaio del 2005 che al quinto Forum sociale mondiale l’allora presidente venezuelano inizia a definire la propria ideologia con questa etichetta, dopo essersi in precedenza presentato come “bolivariano”. Non è l’estremismo apocalittico e millenaristico che nel decennio precedente aveva dato vita a quella variante andina dei Khmer rossi nota come Sendero luminoso. E’ però un’evoluzione terminologica che indica una chiara radicalizzazione. Un po’ iniziando un discorso anti Usa che fino ad allora aveva evitato: ma ora cerca di intercettare una marea montante, dopo le guerre in Afghanistan e Iraq. Un po’ a cercare di prendere un posto lasciato libero da Lula, che da oppositore aveva inventato proprio il Forum sociale di Porto Alegre come tribuna di una nuova alternativa anticapitalista, ma da presidente era però andato verso la Terza via di Blair, sia pure con retorica da leader del Terzo mondo. Soprattutto, poi, era diventato un frequentatore e beniamino proprio di quel Forum economico di Davos contro cui il Forum sociale era nato.
In realtà, il filo tra i due non si era mai interrotto, pur tra qualche occasionale contrasto. In senso lato, il socialismo del XXI secolo si presentava come una proposta mondiale per sostituire il socialismo reale sconfitto nel 1989-92, senza però accettare il capitalismo. In senso più stretto, coincideva col tentativo di Chávez di presentare una proposta istituzionale di “superamento” della democrazia liberale pur senza riproporre il sistema sovietico a partito unico. Essenzialmente, con l’affiancare ai tre poteri di Montesquieu un quarto potere cittadino e un quinto potere elettorale: ripescati, tramite Bolívar, da Rousseau. In un senso intermedio, vari commentatori lo hanno fatto semplicemente coincidere appunto con la marea rosa: quella ondata di governi di sinistra che a un certo punto aveva coperto quasi tutta l’America latina, ma è poi in larga parte rifluita. Salvo dove si è blindata in chiave autoritaria, come in Venezuela e Nicaragua.
In realtà, a un’analisi più accurata la marea rosa appariva chiaramente scomponibile in due modelli diversi. Da una parte, quello di Lula: una sostanziale socialdemocrazia in epoca di Terza via, pur con toni e prassi spesso di tipo populista o anche caudillista, caratteristici della cultura latinoamericana. Il Brasile di Lula e poi di Dilma Rousseff; l’Argentina dei Kirchner e poi di Fernández; l’Uruguay di Tabaré Vázquez e Mujica; il Cile di Michelle Bachelet hanno appartenuto a questo gruppo, le cui caratteristiche erano anche il lasciare invariati i modelli costituzionali esistenti, e il costruire coalizioni di governo aperte verso il centro e anche a destra. Dall’altra, appunto, lo schema di Chávez, e anche di Evo Morales in Bolivia o di Correa in Ecuador, con l’adozione di nuove Costituzioni ispirate alla Quinta Repubblica venezuelana. Quest’ultimo gruppo si è anche dato l’alleanza dell’Alba, estesa a Cuba e al suo partito unico comunista di modello sovietico.
Di recente sono anche venuti in Cile Gabriel Boric; in Colombia Gustavo Petro; in Messico prima Andrés Manuel López Obrador e ora Claudia Sheinbaum. Lulisti, ma con un’immagine più a sinistra: in Cile, per la giovane età di Boric, e per il venire da una protesta studentesca estranea ai partiti tradizionali; in Colombia e in Messico, per essere i primi governi di sinistra della loro storia. In Nicaragua pure Daniel Ortega era tornato al potere in chiave lulista, ma ha poi svoltato in chiave sempre più marcatamente autoritaria. Come radicali erano invece partiti in Perù Ollanta Humala e Pedro Castillo, ma poi il non avere maggioranze li ha spinti a moderarsi. Tutti e due sono stati comunque poi vittime della maledizione per cui tutti i presidenti eletti nel paese dal 1985 sono finiti in galera: salvo uno, che lo ha evitato suicidandosi.
Eletti come moderati e destituiti quando hanno iniziato ad abbozzare una radicalizzazione sono stati Fernando Lugo in Paraguay e Manuel Zelaya in Honduras, anche se ora è al potere a Tegucigalpa sua moglie Xiomara Castro. Sostanzialmente moderati sono stati i due presidenti provenienti dal Fronte Farabundo Martí in El Salvador, malgrado l’immagine radicale della ex guerriglia. Ma dallo stesso Fronte è venuto fuori come astro dell’antipolitica quel Nayib Bukele che praticamente è un Trump centroamericano, e che dopo essersi messo in proprio ha spazzato via tutto il quadro politico tradizionale.
In Cile, appunto, la sinistra è riuscita a tornare al governo con Boric, dopo che alla Bachelet era seguito Piñera. In Ecuador il delfino di Correa ha poi rotto con lui, permettendo al paese di tornare a destra. In Argentina alla Kirchner è seguito il “Berlusconi argentino” Mauricio Macri, dopo di lui è tornata la sinistra con Alberto Fernández presidente e Cristina Kirchner vice, ma ora alla Casa Rosada c’è Javier Milei, con la sua motosega. In Bolivia Morales, che aveva cercato di farsi rieleggere violando la Costituzione, è stato costretto alla fuga da una sommossa. Ma dopo un anno di governo ad interim di destra è stato eletto presidente il suo ex ministro dell’Economia Luis Arce, già autore di un miracolo economico. Per Morales, con l’idea che sarebbe stato un semplice prestanome: ma si è subito visto che Arce aveva altri progetti. In Brasile, dopo la destituzione traumatica di Dilma Rousseff per impeachment e l’altro ciclone Bolsonaro, è tornato Lula, dopo un soggiorno in carcere. E in Uruguay domenica è stato eletto Yamandú Orsi, figlioccio politico di Mujica.
In effetti, esiste un Forum di San Paolo in cui le sinistre latino-americane stanno tutte, compreso il Partito comunista di Cuba. Le accuse da destra a Lula di essere in realtà pienamente d’accordo col regime di Caracas e di differenziarsi solo per un gioco delle parti sono sembrate dimostrate quando Lula, tornato al potere, ha mostrato clamorosamente di ignorare l’involuzione autoritaria che in questi anni c’è stata a Caracas. In particolare, quando il 29 maggio 2023 ha invitato a Brasilia anche Maduro assieme ai presidenti di altri dieci paesi sudamericani, dopo parecchio tempo in cui non si muoveva da Caracas: sia per l’isolamento internazionale che lo aveva colpito in seguito al golpe contro l’Assemblea nazionale e alla feroce repressione contro le successive proteste; sia per gli ordini di cattura della Dea per narcotraffico. “Sono andato in paesi che non sanno dove sia il Venezuela ma dicono che il Venezuela ha una dittatura. Nicolás Maduro, devi decostruire quella narrazione”, gli aveva detto a mo’ di benvenuto. “Le narrazioni sono costruite contro le persone. Nicolás Maduro conosce molto bene la narrazione che hanno costruito contro il Venezuela. Conosci la narrativa che hanno costruito sull’autoritarismo e l’antidemocrazia. Hai i mezzi per decostruire quella narrazione”.
In realtà, ora si capisce, era un discorso ambiguo. Difesa d’ufficio, ma assieme invito a “fare i compiti”. Ed è qui che gli stracci del socialismo del XXI secolo hanno iniziato a volare, quando Boric ha clamorosamente protestato. “Esprimo rispettosamente che non sono d’accordo con quanto affermato dal presidente Lula, nel senso che la situazione dei diritti umani in Venezuela era una costruzione narrativa. Non è una costruzione narrativa, è una realtà, è seria e ho avuto modo di vedere, ho visto l’orrore dei venezuelani. Questo tema richiede una posizione ferma”. Stesso copione quando il successivo 17 e 18 luglio si è tenuto a Bruxelles il vertice Ue-Celac. “Capisco che la dichiarazione congiunta oggi è bloccata perché alcuni non vogliono dire che è la guerra contro l’Ucraina. Oggi è l’Ucraina, ma domani potrebbe essere chiunque di noi”, “si è violato chiaramente il diritto internazionale, non dalle due parti ma da uno stato invasore che è la Russia”. E a quel punto Lula è sbottato: “Sappiamo tutti cosa pensa l’Europa, sappiamo tutti cosa sta succedendo tra Ucraina e Russia. Sappiamo tutti cosa pensa l’America latina. Non devo essere d’accordo con Boric, è la sua visione. Forse, la mancanza di abitudine a partecipare a questi incontri rende un giovane più bramoso e frettoloso. Ma è così che succedono le cose”. Traduzione: chiudi il becco, moccioso!
Ma appena un anno è passato, e Lula si è trovato accomunato a Boric nell’accusa di essere “agenti della Cia” fatta dal Procuratore generale venezuelano Tarek Saab. “Prenditi una camomilla”, gli aveva peraltro già risposto Maduro, quando aveva confessato di essere un po’ spaventato per i toni con cui il governo di Caracas stava facendo campagna elettorale. Alle elezioni del 28 luglio Maduro ha poi detto di aver vinto malgrado i verbali presentati dall’opposizione attestassero invece un trionfo di Edmundo González Urrutia. Lula non è arrivato a riconoscere quest’ultimo legittimo presidente del Venezuela, come fatto da altri governi e ora anche dagli Stati Uniti. Ma insiste che non riconoscerà neanche Maduro, fino a quando non presenta a sua volta verbali che chiaramente non ha. Non solo la stessa posizione è stata concordata con Petro e López Obrador, e ora sembra fatta propria anche da Orsi. Il Brasile ha anche posto un veto clamoroso all’ammissione del Venezuela nei Brics al vertice di Kazan, dove Maduro era andato, ma Lula no, giustificandosi con un misterioso incidente domestico.
“Non ha avuto il coraggio di mettere il veto a Maduro guardandolo in faccia”, è arrivato a dire ancora Saab, sostenendo che sarebbe stato giusto incriminarlo. Dopo aver detto prima del vertice Brics che Saab parlava a titolo personale, quando si è saputo del veto il ministero degli Esteri del Venezuela ha invece rincarato la dose. “Un’aggressione inspiegabile e immorale”, “il popolo venezuelano prova indignazione e vergogna”. Risposta di Celso Amorim, consigliere speciale di Lula per la politica estera dopo essere stato suo ministro degli Esteri: “la questione con il Venezuela non ha a che fare con la democrazia, ma con una violazione della fiducia. Ci hanno detto una cosa e non è stata fatta”. “Abbiamo agito in buona fede, ma con il Venezuela la fiducia è stata infranta”. Di nuovo, è utile una traduzione: chi se ne frega se Maduro fa il dittatore, ma non si deve permettere di disobbedire a Lula, chi si crede di essere?
Il triello tra Lula, Maduro e Boric è clamoroso, ma se non altro riguarda tre governi diversi. Ancora più clamoroso è l’altro triello che divide la Bolivia tra Arce, Morales e l’opposizione. Arce che cerca di impedire al suo ex mentore di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali e anche di mandarlo in galera, con accuse pesantissime di violenza sessuale e traffico di persone. Morales che contro il suo ex delfino e brillante ministro dell’Economia mobilita la piazza con blocchi stradali per affamare le città e costringerlo alle dimissioni, e annuncia ricorsi all’Onu. Tutti e due che si espellono a vicenda dal partito Movimento al socialismo. E lo scontro tra gli ex amici Lula e Maduro si riverbera in Bolivia, dal momento che mentre la società petrolifera di stato venezuelana Pdvsa fornisce a Morales e ai suoi i veicoli con cui si muovono per organizzare la rivoluzione contro Arce, è Arce che il governo brasiliano ha invitato al G20 di Rio de Janeiro. Ma Arce è accusato pure di essere in combutta con Milei, che starebbe aiutando a trovare le prove per incriminare Morales. Le proteste comunque nel corso dell’anno avrebbero portato a danni per 4 miliardi di dollari che corrispondono al 5 per cento del pil, contribuendo a una crisi economica gravissima.
E c’è poi il ministro del petrolio venezuelano e presidente della Pdvsa Pedro Tellechea che è finito in galera, come già il suo predecessore Tareck El Aissami; e il predecessore del predecessore Nelson Martínez; e prima di lui Eulogio Del Pino. Prima ci fu un cugino di Chávez, ma prima ancora per dieci anni Rafael Ramírez, ora esule sotto richiesta di estradizione. Insomma, è il regime di Maduro ad assicurare che cinque degli ultimi sette responsabili dell’impresa chiave dell’economia nazionale erano ladri: esattamente come aveva sempre detto l’opposizione. El País a settembre ha stimato in 4,2 miliardi di dollari il “saccheggio” tra 2007 e 2012, quando era ancora vivo Chávez. Ma il solo Ramírez nel 2022 era stato accusato dal governo di aver sottratto 4,850 miliardi, e nel 2023 ancora il governo ha parlato di ammanchi per 21 miliardi. Tre volte il bilancio dello stato.
E c’è poi Daniel Ortega, presidente del Nicaragua, che ha fatto morire in detenzione il fratello, arrestato non appena era uscita un’intervista in cui lo criticava. In aggiunta al continuo far arrestare ed espellere oppositori, religiosi, leader indigeni, giornalisti, ex compagni di lotta, gli ex guerriglieri che avevano rischiato la pelle per salvarlo dalla galera di Somoza, perfino interpreti di canzoni natalizie. Adesso ha fatto una riforma per nominare co-presidente la moglie Rosario Murillo, altrimenti nota come “Lady Macbeth del Nicaragua”. E tutti i poteri saranno sottoposti alla coppia.
E c’è Cuba che passa da un black-out all’altro, con il governo assolutamente inefficiente nel ripristinare il servizio elettrico, ma in compenso efficientissimo nello sbattere in galera chi protesta. La Ong Prisoners Defenders ha denunciato come i prigionieri politici fossero arrivati a 1.117 dopo le manifestazioni per le interruzioni di energia, ma più in generale l’isola ha la seconda popolazione carceraria relativa del mondo: 794 per ogni 100.000 abitanti, che sarebbe 4,4 volte la media mondiale. Come possono peraltro i cubani scappano, e da 11,1 milioni di abitanti del 2021 la popolazione in tre anni è precipitata a meno di 10 milioni, secondo lo stesso governo; addirittura a 8,6 milioni secondo stime indipendenti. Peraltro anche la diaspora venezuelana è arrivata a 7,7 milioni di persone su una popolazione di 30 milioni, e almeno un venezuelano su quattro ha detto che si prepara ad andarsene se Maduro resta al potere.
E c’è Gustavo Petro, ex guerrigliero divenuto presidente della Colombia, che a settembre ha ripreso le ostilità con la guerriglia dell’Eln dopo che questa ha fatto un attentato a una base militare in cui ha ucciso tre soldati e ne ha feriti altri 30, anche se a ottobre i negoziati sono stati faticosamente ripresi. E c’è l’ultimo presidente argentino Alberto Fernández, a cui Maduro non ha dato il visto per seguire le elezioni in Venezuela dopo che aveva anche lui manifestato perplessità; sotto inchiesta per le accuse di violenza domestica della moglie. E la sua vice Cristina Kirchner: condannata a sei anni e inabilitazione perpetua per amministrazione fraudolenta ai danni della pubblica amministrazione, anche se la sentenza non è ancora definitiva. Ma anche Manuel Monsalve: sottosegretario all’Interno di Boric, appena arrestato per stupro. Ma pure su Boric si è ora abbattuta una denuncia per molestie sessuali, risalenti a dieci anni fa. Un dossier pesante, se si pensa che anche Ortega è stato accusato di stupri ripetuti dalla figliastra, e accuse di sesso con minorenni hanno colpito anche Morales e Lugo.
Ancora, Rafael Correa: in esilio politico in Belgio, dopo essere stato condannato a otto anni per corruzione. E il grave scandalo in cui è stato coinvolto il figlio di Petro: già deputato, si è riconosciuto colpevole di arricchimento illecito. E lo scandalo per il video in cui narcos offrono al cognato di Xiomara Castra 630.000 dollari: per finanziare la campagna elettorale di lei. Dopo l’elezione a presidente di Milei in Argentina, anche in Brasile e in Cile la destra ha vinto le ultime amministrative, e nella stessa Colombia la posizione di Petro è debole. López Obrador ha in compenso passato la mano alla sua erede designata con una vittoria trionfale, in Uruguay è appunto tornata al potere la sinistra con l’imminente ballottaggio, e anche in Ecuador per le prossime elezioni il quadro è abbastanza aperto. Insomma, non è la fine di una sinistra dalle molte anime, che in America latina ha ancora molte cose da dire e fare. Ma il socialismo del XXI secolo non esiste più: né come proposta; né come rete; né tanto meno come sogno, che anzi è spesso degenerato in incubo.