Ricordi dagli ultimi decenni del Novecento e i primi del terzo millennio, quando chi andava in edicola acciuffava l’Espresso, la cavalcata di Repubblica, i giornali che si inventava Vittorio Feltri, il Panorama che Rinaldi aveva reso un’architettura perfetta
Nel cuore di una piazza romana su viale Trastevere troneggia un’edicola da giornali che da un paio d’anni è costantemente chiusa, o meglio sprangata. Se ne sta sola soletta in mezzo alla piazza, altera, orgogliosa del suo passato, sprezzante di quei tanti che nel passarle accanto nemmeno la guardano e che forse nemmeno sanno che cosa sono state le edicole nella storia repubblicana italiana del secondo dopoguerra. Di quanto siano state decisive nell’alfabetizzazione della nostra giovane democrazia, quanto decisive nel fare di ognuno di noi quello che è oggi.
Abito in questo quartiere da una ventina d’anni, e dunque quell’edicola è come se fosse lo stemma del quartiere. Non è che fosse aperta, era spalancata, e questo tutti i giorni della settimana, dalle sette del mattino fino alle 19 di sera. Dodici ore al giorno in cui restava una sola sentinella a guardia dell’edicola: un uomo tra i 50 e i 60 anni nodoso d’aspetto. Era lui il padrone dell’edicola. Il quale non prendeva un solo giorno di riposo in tutta la settimana. Tutti i santi giorni era lì, risoluto, fiero del suo lavoro, quei giornali che lui maneggiava come fossero piume o forse degli strumenti musicali. Gli chiedevi questo o quel titolo e il suo braccio scattava all’istante a cercarlo in quella o quell’altra pila rigorosamente affiancate l’una all’altra. Erano gli ultimi decenni del Novecento e i primissimi del terzo millennio. Chi andava in edicola acciuffava l’Espresso dei tempi migliori, la cavalcata iniziale di Repubblica, i giornali che si inventava Vittorio Feltri, il Panorama che Claudio Rinaldi aveva reso un’architettura perfetta, la costruzione del Foglio e cento altri tra esperimenti e tentativi e velleità. I tragitti del Novecento di cui sapevamo qualcosa andavano via via sostituiti da altri che stavano creando un secolo nuovo, non sapevamo se migliore o peggiore del precedente. Trattavasi comunque di carta, carta, carta su cui sgambettavano righe di piombo ciascuna delle quali celava un’anima e te la trasmetteva.
Di certo la trasmetteva a tantissimi di noi ventenni e trentenni. Non che non esistesse già la televisione e la sua strapotenza comunicativa, non che le radio tacessero (tutt’altro), ma erano i giornali di carta a fungere da perno di quel gran subbuglio. Ed erano le edicole che li custodivano e li valorizzavano. Nei miei vent’anni di ragazzo catanese che stava arrampicandosi su per le scale del conoscere, un ruolo eccezionale lo ebbe quella che sbaglierei a chiamare un’edicola, perché era l’abitazione di una famigliola (padre, madre, figli) dov’era un tutt’uno il vivere quotidiano e il vendere giornali, un giorno dopo l’altro, a chiunque entrasse con le monete in mano. Erano ancora gli anni Settanta e i giornali nazionali arrivavano in quell’edicola catanese un paio d’ore dopo essere arrivati a Roma o a Milano, ossia alle nove avanzate. Io che spasimavo di leggerli irrompevo in quell’edicola più o meno a quell’ora, solo che spesso i quotidiani non c’erano ancora e dunque me ne tornavo a casa a mani vuote per poi ritornare una seconda volta. C’ero andato tre volte una mattina in cui i quotidiani arrivarono non prima delle undici.
Un’èra lontana. Oggi ho la fortuna di avere un’edicola aperta, seppure soltanto metà della giornata, non lontano da casa mia. Mai ci ho visto un avventore che avesse meno di cinquant’anni, semmai è un miracolo che quell’edicola resista. Del resto le cifre parlano un linguaggio inesorabile. La Repubblica diretta da Eugenio Scalfari vendeva allora 400 mila copie, oggi è ben lontana da centomila. Editori di giornali con una grande storia e una gran lustro, mi riferisco alla Stampa di Torino, sono alla disperazione. Trent’anni fa se montavi su un treno e ne percorrevi un vagone, ti accorgevi che un viaggiatore su due stava leggendo il settimanale Panorama diretto da Claudio Rinaldi, che vendeva attorno alle 400 mila copie e che alla Mondadori chiamavano “la gallina dalle uova d’oro”. Adesso ti accorgi a stento che sia uno dei giornali in vendita, talmente nell’edicola è nascosto fra gli altri. Quanto agli editori di giornali, vanno alla grande gli Angelucci (che puntano su un lettorato di destra) ma i soldi che loro scaraventano alla grande sul mercato non vengono dall’editoria. Non c’è più gara tra la forza comunicativa dei giornali di carta e i social i cui canali sono in azione 24 ore su 24. Una qualsiasi sciocchezza pronunciata a voce alta sui social desta un’eco maggiore di quella che mezzo secolo fa suscitavano gli articoli del sommo Indro Montanelli. Un battibecco sui social determina il contenuto di una seduta alla Camera. No, non un battibecco, un pulsante scambio di insulti.