A soccorrere il liberale che voglia giustificare il ricorso a un nuovo divieto senza rinnegare sé stesso viene sempre John Stuart Mill, Alla fine, è ancora una volta una questione di informazione e di educazione, compresa quella per i genitori
A soccorrere il liberale (anche quello moderno) che voglia giustificare – senza rinnegare sé stesso – il ricorso a un nuovo divieto viene sempre John Stuart Mill, secondo cui l’“unico scopo per cui il potere può essere esercitato legittimamente sulla comunità, contro la volontà di un individuo, è quello di impedire che danneggi gli altri”. Ed è la cronaca a raccontarci che l’abuso, l’uso distorto inconsapevole nelle piattaforme social da parte delle bambine dei bambini, ha creato frequentemente danni a loro stessi e ai loro coetanei. Ma siamo proprio sicuri che il divieto di accesso alle piattaforme (con qualche eccezione, che vedremo) per gli under 16 approvato dall’Australia e che qualcuno vorrebbe “importare” anche in Italia sia adeguato per risolvere le storture, veramente applicabile e – anche dal punto di vista morale, oscurantista – l’unica soluzione possibile? Certo, erano belli i tempi della via Gluck quando i bambini giocavano a pallone nei campi a Milano, ma le piattaforme hanno cambiato il modo di informarsi e anche di imparare, consentito di confrontarsi con lingue, culture e realtà molto diverse, reso i nostri figli molto più consapevoli.
Al punto che molti stati europei – e se ne discute anche in Italia – riconoscono ai sedicenni, cioè l’età cui si vorrebbe estendere il divieto a iscriversi a un social, il massimo riconoscimento di maturità e consapevolezza, cioè il diritto di voto. Questi sedicenni sono così immaturi da non potersi aprire un profilo Facebook o così “grandi” da poter scegliere da chi essere governati? Secondo tema: già oggi, anche se nessuno lo sa, vige il divieto per gli under 13. La nuova legge, dunque, alza questo limite di soli tre anni. Chi se n’è accorto? Nessuno, perché anche il divieto è sulla carta, viene sistematicamente aggirato e anche senza fatica: l’age verification, cioè il controllo dell’età, che tutte le piattaforme eseguono in forza della legge, è una banale autocertificazione. Non è ancora stato individuato – nonostante investimenti miliardari – un sistema che tuteli privacy (cioè non chieda alle piattaforme di verificare documenti, trattenendone i dati) e verità. Tanto è vero che TikTok dice di cancellare una media di sei milioni di account di under 13 ogni mese.
Poi c’è il tema delle vpn: aggirare il divieto imposto da un singolo stato è appunto un gioco… da ragazzi, come sa bene chi è stato in Cina – dove sono vietati i social per tutti – o aveva curiosità di interrogare ChatGpt nel – breve – periodo dell’oscuramento. Infine: siamo proprio sicuri che vietare – come succede per le droghe leggere ma non solo, come cantava Piero Pelù prima dell’incidente con le matite copiative, coi Litfiba, nel 1991 – non aggiunga un’aurea di “proibito” e dunque di desiderabilità a una banale iscrizione alla piattaforma dove ci sono anche la nonna e due balletti per teenager? Ultimo argomento: se lo scopo è disconnettere i ragazzi – e ci sta – chiuderli a ogni possibile pericolo e influenza esterna, anche commerciale, allora la legge australiana avrebbe dovuto impedire loro di avere un telefono o un telefono chiuso, senza app o messaggistica. Così, però, non è stato: le nuove norme del paese dei canguri consentono loro di utilizzare Whatsapp e YouTube, che non sono meno pericolosi – rispettivamente – in tema di contatto da parte di estranei e di influenze e annunci commerciali. Il divieto di iscrizione per gli under 16 non tiene conto delle evoluzioni del settore e delle ultime sensibilità, non – o non solo – dettate da imposizioni, ma anche – paradossalmente – dall’esigenza commerciale di avere una buona “brand reputation”, evitando scandali e casi di cronaca.
Quasi tutte le piattaforme prevedono già oggi un sistema che crea delle “bolle” per i più giovani: limiti nella pubblicazione, divieto di video live e pubblicità personalizzata, impossibilità di essere contattati da estranei. Il parental control è già obbligatorio, ma i genitori devono saperlo attivare. Perché poi, alla fine, è ancora una volta una questione di informazione e di educazione, compresa quella per i genitori. Piuttosto che il divieto totale – per qualche tempo – dunque, nell’anno domini 2024, sarebbe forse meglio sedersi attorno a un tavolo con tutti gli operatori – che hanno molte risorse – e lavorare insieme a codici di autoregolamentazione più stringenti, proseguire la strada della tutela “da dentro”. Lo stato vigila, non si intromette. L’unico compito che spetta chiaramente alle istituzioni è quello – importantissimo, come abbiamo visto, da cui discende tutto il resto – di risolvere la questione della verifica dell’età: lo strumento potrebbe essere il wallet.