Siamo entrati nell’“Enshittocene”, l’èra in cui ogni progresso si trasforma in munnèzza. Ogni cosa, in una linea immaginaria che va da “quello che mi piace” a “quello che mi serve”, da Instagram all’intelligenza artificiale, viene lentamente trasformata in porcheria
Il meglio è alle spalle. Sta andando tutto in vacca, alle ortiche. A schifìo. Sì, ogni epoca ha detto alla successiva “fate pena!” ma adesso qualcosa s’è inceppato veramente, la prova è il fatto che i populisti vincono ovunque le elezioni ma non a un giro solo, vuol dire che neanche la consapevolezza maturata a delusioni funziona. Ergo qualcosa non va. Tutto peggiora. Siamo entrati nell’“Enshittocene”, l’èra in cui ogni progresso si trasforma in munnèzza. Ogni cosa, in una linea immaginaria che va da “quello che mi piace” a “quello che mi serve” – da Instagram all’intelligenza artificiale – viene lentamente trasformata in porcheria.
Il termine “enshittification”, la caduta a picco di una piattaforma, descrive il declino generale verso l’insensatezza, il Macquarie Dictionary l’ha eletta parola dell’anno. Un’altra lebbra – probabilmente anch’essa capitalistica – sta erodendo la nostra pazienza. L’eshittification ha preso tutto: dalle piattaforme social ai movimenti femministi, dalle politiche ambientaliste all’università. Pure le professioni degli intellettuali ora passano sotto le forche caudine del nessuna vergogna. Ho visto le menti migliori e anche le mediocri della mia generazione vendersi sui social, eccomi anch’io. Certe esibizioni anche in tarda età non fanno più impressione. Tutto è piegato a un commercio da banco di consensi. Quale rifugio? Nessuno. La cultura. I film. Le serie. Come siamo finiti da “ER” a “Bridgerton”? Quante stagioni di “Emily in Paris” dovremo sopportare? Le piattaforme sono ridotte a distributori automatici di tramezzini rancidi. Dovesse sbucare all’improvviso il “prodotto di qualità”, quello durevole, il generatore d’archetipo, saremmo capaci di riconoscerlo?
Non si salva niente. Le relazioni per esempio. Già erano discretamente impazzite negli anni ’10, ora è un tetris diabolico. Gente che scrive senza vedersi, gente che controlla le storie per vedere se l’ex guarda, gente innamorata di soggetti mai visti – tutti adulti. C’è poco da analizzare: un rimbecillimento collettivo. E’ talmente alto lo stato di nevrosi che mancano le energie per gli accoppiamenti. L’attenzione. Qualcuno si ricorda l’attenzione? Quella cosa che mi consentì di stare otto ore al giorno su un libro, imparare milleduecento pagine ogni tre mesi moltiplicato per cinque anni e prendere una laurea. Un continuo dentro e fuori dai social. Leggi, apri il link, la foto, il like, poi torni alla scrivania, riprendi le tue carte, riavvii il lavoro interrotto. Sono come infiniti traslochi dei neuroni, una successione di microvertigini. “L’attenzione profonda viene progressivamente sostituita da una forma di attenzione ben diversa, l’iperattenzione (hyperattention). Il rapido cambiamento di focus tra compiti, sorgenti d’informazione e processi diversi caratterizza questa attenzione dispersa”. (Han, Byung-Chul. La società della stanchezza, nottetempo).
Videocall al posto delle riunioni? Benissimo. Si risparmia tempo, funzionerà tutto meglio! Dopo due anni siamo ridotti come polli da batteria, sempre in conference call. Eravamo lavoratori sereni e non lo sapevamo. E’ tutto moderno ma è tutto perverso. Abbiamo passato anni senza istruzioni. Un forte senso di sfilacciatura. S’è persa la trama, il pavimento si sta crepando, cretti piccoli come vasi capillari. L’economia, la politica, e la società appresso, stanno facendo una curva strana con le tecnologie. Servivano dieci anni di adattamento in più? Sta franando il vecchio mondo – come sempre ogni tot decenni – ma tutte le volte in cui è successo qualcuno capace si affacciava e interpretava gli spiragli del nuovo. Avevamo sempre la possibilità che le rivoluzioni non ci esplodessero addosso. Ora siamo in una tazza di latte, non si vede niente, nessuno azzarda mezza previsione, nessuno se la sente di premere fino in fondo il bottone dell’allarme. Intellettuali, per favore non ci lasciate soli con gli ingegneri.