Sull’industria italiana del caffè pesano due enormi macigni: la speculazione finanziaria e l’ideologismo di Bruxelles. La geo-economia del chicco è il termometro dello stato del pianeta. Ma tra disastri climatici e guerre, è da anni che segna febbre
Ogni anno, a luglio, al bar La Pergola, di fronte al campo centrale di Wimbledon, dalle opulente pareti di edera e fiori, accanto ai campi aperti al pubblico, uno dei posti più affollati dell’intero torneo di tennis, il cappuccino viene servito in tazzine pezzi unici coi colori verde-viola, quelli dell’evento; e la schiuma ha una elegantissima decorazione con il logo di Wimbledon, con tanto di racchette. È una raffinatezza, cortesia degli italiani, anzi dei piemontesi di Lavazza, per la precisione. Alcuni giorni fa, la All England Lawn Tennis & Croquet Club, che sarebbe il vero nome del torneo (il più comune Wimbledon è solo il quartiere di Londra dove si gioca) ha lanciato, come fa ogni autunno, la “riffa” per il 2025: saranno estratti a sorte alcuni fortunati che riceveranno gratis un introvabile (e costosissimo) biglietto. Questi privilegiati potranno anche loro assaporare il cappuccino Lavazza griffato Wimbledon: ma la “tazzina” rischia di costare loro, paradossalmente, più di tutto il resto. Il caffè, inteso come chicco che si compra e vende in Borsa, è arrivato a prezzi folli: ieri la quotazione della varietà Robusta, peraltro scambiata proprio a Londra sul mercato Liffe, è arrivato a sfondare i 5.300 dollari la tonnellata, quasi cinque euro al chilo.
La bevanda simbolo dell’Italia è invenzione recente sull’erba color smeraldo più celebre del mondo: Lavazza sbarcò nel 1990 in Gran Bretagna, quando le persone bevevano solo il caffè solubile da mescolare nell’acqua calda (l’Americano) e da quasi quindici anni è il fornitore ufficiale di tazzine di caffè del torneo. Per quasi 150 anni, i gentiluomini che andavano a ha sorseggiato solo tè come bevanda calda di conforto. Ogni estate, nelle due settimane apoteosi mondiale del tennis, vengono bevute più di 250mila tazzine di caffè, quasi ventimila al giorno: il signor Luigi Lavazza ha cambiato le abitudini dei sudditi di Sua Maestà ma quando fondò l’azienda a fine Ottocento.
I suoi eredi, però, quest’anno possono godersi poco il prestigio di Wimbledon. Oggi, sull’industria italiana del caffè pesano due enormi macigni: la speculazione finanziaria e l’ideologismo di Bruxelles. Il prossimo anno, al torneo inglese, il pubblico assaporerà un paradosso: l’espresso servito alla Pergola sarà più buono di una tazzulella bevuta da Scaturchio o nello chalet Ciro, a Napoli. L’Unione europea vuole salvare l’ambiente e sta per varare una norma sulla deforestazione. Se passerà, però, gli italiani non potranno più rifornirsi di caffè, abbassando enormemente la qualità. I paletti “ecologici” fissati da Bruxelles sono così rigidi che l’80 per cento degli attuali agricoltori da cui l’industria si rifornisce del pregiato chicco saranno banditi. “L’intento è nobile e condivisibile – esordisce Luigi Lavazza – ma è una norma impossibile da applicare, a costo di azzoppare le aziende”. E siccome, quando si parla di ambiente (vedi alla voce pannelli solari), il danno non viene mai viene senza beffa, la norma non si applicherà al caffè solubile, che rispetto al macinato è prodotto industriale, trattato con processi chimici. Ulteriore paradosso: la Nestlè continuerà a vendere tranquillamente il Nescafè, mentre sui produttori di caffè italiani cadrebbe una tegola difficilmente sopportabile.
Il caffè, come il petrolio, ha un difetto: non si trova in Europa. Le numerose varietà si raccolgono tra il Sudamerica, l’Africa e l’Asia: Lavazza, Illy, Segafredo & Co. lo importano, lo lavorano per creare l’inconfondibile aroma che ha conquistato tutto il mondo. Ancora come il petrolio, il caffè è la materia prima più sensibile al mondo: non a caso si paga anch’esso in dollari e ha pure dei future, come la Borsa. La geo-economia del chicco è il termometro dello stato del pianeta: e da anni segna febbre. Il prezzo di una tonnellata del caffè Robusta sembrava già insostenibile la scorsa estate, quando toccò i 300 dollari. Ora è addirittura a 500 dollari, che diventano 600 per i produttori di caffè, con i differenziali, più o meno pregiati, della medesima varietà, tra disastri climatici, guerre, e la chiusura del Canale di Suez, da dove arriva il grosso della materia prima. “Tutta l’industria del caffè tradizionale è sotto pressione” chiosa Lavazza: le quotazioni del caffè da sempre vivono picchi e cadute. Ma stavolta è diverso: mai era succo di avere prezzi così alti e così a lungo. Sul caffè è arrivata la TurboFinanza, gli speculatori-squali: sono ormai gli hedge fund a muovere il prezzo del caffè, fino alla tazzina del bar. Come se non fosse già uno scenario difficile, sugli italiani grava la spada di Damocle della normativa deforestazione che rischia pure di far fallire decine di aziende agricole in paesi poveri.
Se Bruxelles farà l’ennesimo favore alle multinazionali straniere, penalizzando ancora una volta l’Italia del buon cibo, a Wimbledon, fuori dall’Ue, verrà servita la migliore varietà di caffè, senza vincoli ambientali, mentre in Italia, non potendo più rifornirsi a piacimento, si berrà la ciofeca. Povero Totò.