Colpa, pentimento e perdono. Una storia lunga secoli e mai risolta. Sul saggio di Rémi Brague

L’apparente umiltà del bianco che oggi si batte il petto non è che un modo per conservare la propria dominazione, esibendo la sua nuova virtù. Ora soffre più di colui che ha oppresso e può quindi ancora parlare al suo posto

Gli occidentali non hanno atteso gli studi post coloniali o il woke per criticare l’occidente e il suo trattamento degli “indigeni”. Questo inizia già nel XVI secolo, quando l’occidente ha cominciato a conquistare il mondo. La domanda si pone subito: la conquista può giustificare la sofferenza inflitta agli indigeni? E i primi a porsi questa domanda sono i missionari cristiani, che saranno affiancati – ma più tardi – da pensatori come Montaigne e Diderot. È il domenicano Bartolomé de Las Casas a inaugurare questa critica dell’occidente su se stesso, e lo fa in nome dei valori cristiani (si veda la famosa controversia di Valladolid nel 1550). L’autocritica dell’occidente è, infatti, un approccio fondamentalmente cristiano. Se l’individuo deve confessare i propri peccati, perché non anche i peccati collettivi? Perché non la colpa collettiva? L’ascesa dell’occidente non è separabile da questa inclinazione cristiana a cercare la propria colpa e a chiedere perdono. Dire che solo l’occidente si imporrebbe questo “masochismo” significa proprio riconoscere che ne ha fatto anche una forza.

Infatti, questo pentimento permanente non ha affatto ridotto la sua volontà di dominazione né la sua efficacia. Al contrario, l’ha affinata, resa più sottile e ha permesso al dominato di riconoscervisi, di trovare più o meno il proprio posto, appropriandosi l’esigenza di universalità propria tanto dell’occidente quanto del cristianesimo. L’apparente umiltà del bianco che oggi si batte il petto non è che un modo per conservare la propria dominazione, esibendo la sua nuova virtù. Il bianco soffre della sofferenza altrui, si carica della colpa del mondo. Più santo di lui non c’è nessuno: holier than thou, perché la mia santità si misura con la grandezza del mio peccato. Ora soffro più di colui che ho oppresso e posso quindi ancora parlare al suo posto. In questo mondo dove l’esibizione della sofferenza è il garante del riconoscimento, il bianco resta il padrone delle parole, il padrone del mondo.

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