Scrivere per entrare nel giro del familismo morale – senza la “a” perché qui c’è la purezza, il giusto, il bene comune, mica biechi interessi personali. Nessuno si dà del lei e non si capisce chi sta facendo un favore a chi. Il caso Caffo a Più libri, più liberi, i salotti televisivi, la fastidiosa retorica sul merito
Confesso che fino a pochi giorni fa non sapevo chi fosse questo Leonardo Caffo, autore, scrittore, filosofo, ritiratosi all’ultimo momento dalla fiera della piccola e media editoria governata da Chiara Valerio (se non sapete nulla e siete messi peggio di me: lei lo invita, lui è imputato per maltrattamenti contro la ex, la fiera è dedicata a Giulia Cecchettin, avete capito). Discepola, erede, sacerdotessa maxima del culto di Michela Murgia, Chiara Valerio si è trovata in mezzo a un gran merdone (shitstorm, se preferite). Ha provato a spiegarsi in un video agghiacciante in cui parlava di “spazi” e “corpi che quegli spazi li occupano”. Poi ha avuto a disposizione il palco di “Propaganda Live” per precisare meglio, scusarsi, chiarire. Poi l’operazione di mutuo soccorso tra amici della sinistra libresca e televisiva non è bastata. E’ franato tutto. Il tribunale di internet non perdona.
La cosa interessante di questa storia è che dei libri (di Caffo o di Chiara Valerio), che pure sarebbero il campo da gioco principale della vicenda, non frega nulla a nessuno (apro incuriosito un libro di Caffo, leggo “arroganza dell’antropocentrismo distruttivo, non tanto l’umano al centro del mondo ma, piuttosto, un tipo di uomo al centro: bianco, eterosessuale, maschio e preferibilmente occidentale”, richiudo il libro di Caffo). I libri ci sono, scritti come sono scritti, ma esistono soprattutto come pretesto per posizionarsi coi propri “corpi” e “gesti” e “presenze”, “assenze”, “pronomi” dentro la vasta galassia del wokismo all’italiana, di cui il murgismo è uno dei filoni più ricchi, potenti, influenti. “Amici di Michela Murgia”, come “Amici di Maria De Filippi”, è il palcoscenico dove si costruisce la carriera, una scuola di educazione civica in cui ci si mette in mostra, ci si esalta, ci si protegge, si scala la hit-parade dell’etica, si prendono buoni voti o si fallisce (come ora Chiara Valerio). I libri non sono il punto. Il punto è l’esibizione dell’amicizia. Scrivere per entrare nel club Murgia e nel giro del familismo morale – senza la “a” davanti perché qui c’è la purezza, il giusto, il bene comune, mica meschinerie, grettezze, biechi interessi personali, come noialtri familisti tradizionali. L’esibizionismo dell’amicizia muove il mondo come una gigantesca economia sommersa. Anche i libri senza lettori spostano interessi. In Italia se ne pubblicano trecento al giorno, più o meno dodici titoli ogni ora, e se arriverete alla fine di questo pezzo, ne sarà uscito un altro. In tanti collaboriamo a questo stillicidio (anche io). Come saprete il trenta per cento di questi novantamila libri annui non vende neanche una copia. Zero. Segno che l’autore è stato mollato anche da amici, famigliari, parenti, oppure gliel’hanno chiesto in pdf o neanche quello.
Poi ci sono gli eletti. Il club ristretto, l’Olimpo, il parnaso dei libri. Al simmetrico opposto del murgismo ci sono i libri progettati per andare da Fazio e nei talk-show. Libri che forse vendono, forse no, ma che intanto esistono e celebrano legami, amicizie, appartenenze. Scanzi presenta il libro da Bianca Berlinguer. Carofiglio da Lilli Gruber. Veltroni da Fazio. Gli amici di Mara Venier vanno a presentarlo a “Domenica In”. Lì il libro risolve anche problemi di scaletta di un programma che va avanti per quattro ore chiacchierando per lo più tra amici. E’ il marketing dell’amicizia: ti riempio un’ora di programma, tu mi lanci il libro. Andiamo a braccio, che ce vo’, siamo amici. “Sono contento perché sono qui da te a presentare il mio libro”, dice Antonello Venditti che ha scritto un’“autobiografia per immagini che fermano l’attimo ma non lo colgono”. “Tu in questo libro parli di te, della tua storia, dei tuoi genitori, dei tuoi traumi”, dice Mara Venier mentre strizza le palpebre, si fa seria, concentrata, smaneggia il libro, lo sfoglia, lo apre a caso, punta la copertina verso la telecamera. E Antonello intanto racconta la sua vita, il bullismo della mamma, il suo Io scisso, “sono Antonello ma sono anche Venditti”, ma soprattutto arriva al punto, “perché noi, io e te Mara, siamo amici, ci frequentiamo veramente”. E non si sa bene chi dei due stia facendo un favore all’altro. Anche Piero Marrazzo che ha scritto un memoir su via Gradoli, snodo della storia del paese e della sua vicenda personale che probabilmente ricorderete, e anche lui va a “Domenica In” perché “ci tenevo a parlare del mio libro proprio qui”, “no ma figurati, sono io che ringrazio te!”. E via così per minuti che sono davvero interminabili tra salamelecchi, abbraccioni, sbaciucchiamenti.
Non scopriamo oggi le comprensibili logiche corporative, il mutuo sostegno della categoria dei giornalisti televisivi, come ogni altra categoria, politici, intellettuali, scrittori antagonisti, tassisti, dentisti, professori universitari. Ma colpisce rispetto al mondo di ieri l’assenza di pudore. Quel giocare a carte scoperte nell’ovvio scambio di favori e cortesie. Quell’intimità amicale che in tv, per esempio, sembra fregarsene dello spettatore a casa, come lo si chiamava una volta. Quello per cui tutto sommato dovrebbe essere messa in scena quella cosa lì (i saluti tra ospite e conduttore sono diventati un preambolo insopportabile di ogni intervista, “come stai?” “quanto tempo!” “ti trovo bene!”, come i titoli di testa di quei film d’autore che ti straziano prima dell’inizio, e tra i motivi del successo di “Belve” c’è forse anche il ripristino del “lei” tra intervistato e intervistatore, certo che sono amici anche lì, ma almeno fingono bene, fanno televisione, non anticamera e salotto). Altro libro, altro amico. Più libri, più amici: ecco un Festival della piccola-medio-grande editoria che manca! Sto leggendo il libro di Claudio Sabelli Fioretti, che non ho ancora visto presentato in tv, una miniera di oltre mezzo secolo di racconti, aneddoti, tranche de vie del giornalismo italiano e tutto ciò che gli gira intorno. A un certo punto dice che prima il libro serviva per fare il salto di qualità: “La maggior parte dei giornalisti non pensa di essere un intellettuale. E’ questo il motivo per cui, per ottenere la promozione alla categoria degli intellettuali, i giornalisti scrivono libri. Servono per fare il salto di qualità, e servono alle rassegne estive di incontri che vengono organizzate nelle località di villeggiatura” (tra le meraviglie di questo libro c’è anche che Sabelli Fioretti dica ancora “villeggiatura”). Ma si scrivono soprattutto per andare in tv, per essere invitati, cementificare amicizie, agitare l’ego, smuovere le proprie quotazioni (poi c’è anche chi li vende, per carità, ma pochi). Ogni volta che sento in tv Fazio o Mara Venier o Lilli Gruber o Corrado Formigli o fate voi dire all’ospite di turno “il tuo bellissimo libro” mi viene nostalgia di Sangiuliano e del suo meraviglioso “proverò a leggerli” a proposito della cinquina dello Strega. Quanto gli si è voluto bene in quel momento! Che disarmante, bambinesca, dadaista sincerità. E anche se poi ha provato a rovinare tutto mettendo le mani avanti (“ho ovviamente letto i libri del Premio Strega, ma volevo dire che li avevo letti di fretta, non avevo avuto modo di approfondire”, come se uno non solo li leggesse, ma poi li “approfondisse”, qualsiasi cosa voglia dire per un romanzo), resta il guizzo di un momento di grande identificazione nazionale. Lì allo Strega Sangiuliano era fuori dal club, poi ci ha messo molto del suo per farsi accompagnare alla porta.
La chiacchiera tra amici muove interessi, soldi, prodotti, promuove e smista carriere. Ci leggiamo tra amici, recensiamo tra amici, invitiamo, segnaliamo, litighiamo nei talk-show tra amici con alcuni amici costretti a fare il gladiatore con gettone di presenza. Ce la prendiamo con Meloni che mette gli amici nei posti chiave. Ce la prendiamo con Trump che “premia più la fedeltà che il merito” radunando a Washington una squadra di cattivoni della Marvel amici suoi, come se alle spalle avessimo una tradizione calvinista di rigorosa imparzialità nelle nomine di governo. Come se non si fosse fatto sempre così. La regola dell’amico, direbbero gli 883 tornati di moda, da noi non ha mai avuto troppo pudore. E’ chiaro che Flaiano quando diceva che “le rivoluzioni in Italia non si possono fare perché ci conosciamo tutti” non aveva ancora visto nulla. Nel mondo dopo i social poi, quando Mark Zuckerberg ha riscritto il significato della parola “amici”, non c’è più neanche bisogno di conoscersi veramente. Basta dichiarare l’appartenenza, seguire il flusso, stare nel mood. Per definire quell’insieme chiuso di relazioni, favori, indulgenze che va dall’arcaico “familismo amorale” al classico “nepotismo” abbiamo un ventaglio di termini assai ampio. “Essere ammanicato”, entrare nel “cerchio magico” con la variante renzianza del “giglio”, far parte dei “fedelissimi”, del “clan”. Mai un sano “fare lobby”, che è cosa anglosassone, seria, trasparente, ma confraternite, consorterie, circoli, “conventicole” come quelle immortalate in un gran film di Virzì di un po’ di anni fa. Ora c’è “l’amichettismo”, ultimo arrivato, che piace anche al presidente della Crusca: “La parola è divertente e tutta italiana. Non mi dispiace che sia entrata nella battaglia politica. Vedremo se durerà”. Finisce anche nella Treccani, dove ormai entra tutto: “s. m. (iron.) Il comportamento di chi, generalmente da una posizione di potere e di prestigio, favorisce i propri seguaci”. Funziona, si usa, intercetta o “fotografa” un fenomeno diffuso, resta però foneticamente orribile. “Amichettismo” ha il suono irritante di “attimino” e “momentino” e la pretenziosità di tutti gli “ismi”.
Fulvio Abbate ci ha scritto su un libro, con copertina finto Gallimard, e rivendica il copyright. Il suo “amichettismo” nasce come critica alle élite della sinistra postveltroniana, quindi rivolo, propaggine, derivazione delle litanie sui “radical chic” e le “terrazze romane”, dove però da trent’anni tutto si mescola con tutto. “Amichettismo” diventa refrain meloniano. “Il tempo dell’amichettismo è finito”, dice Giorgia, “nei posti ci vanno le persone che hanno le competenze. In Italia vige l’amichettismo. Questi circoli di amichettisti hanno un indotto. E’ finito quel tempo. Questo è il tempo del merito”. Altra parola-ombrello, abusata, fraintesa, svuotata. Luigi Di Maio pensava a un “ministero della Meritocrazia” per orchestrare il Grande Disegno di Abolizione della Povertà. Merito e meritocrazia erano anni fa termini sommamente renziani, risuonavano in tutte le Leopolde, guidavano la riforma della “Buona scuola”. La destra rinomina il ministero “dell’Istruzione e del Merito”, lasciando intendere un cambio di passo, il profilo di una piramide sociale, il ripudio dell’italianissima raccomandazione. Meritocrazia è un’invenzione di Michael Young, sociologo laburista inglese, che in The Rise of the Meritocracy, immaginava una spietata società totalitaria regolata dalla logica equanime del merito che tanto equanime non era. Il libro è del 1958. Young non sospettava di aver introdotto un termine destinato a essere più frainteso di “radical chic”. Ormai anche gli allenatori dicono che “nel calcio c’è poca meritocrazia, è tutto in mano alle lobby”.
Se la vicenda Chiara Valerio è “la prova provata dell’amichettismo” (dice Fulvio Abbate) va anche detto che prendersi l’eredità di Michela Murgia, sgomitando, tessendo relazioni, “occupando spazi”, è a suo modo un talento. Chiara Valerio potrebbe dire che quell’eredità se l’è “meritata”. Diffidare sempre di chi mette un confine netto e perentorio tra amichettismo e meritocrazia che in Italia non sono mai davvero separabili (oltre a essere due parole una più brutta dell’altra). Molti anni fa Walter Siti diceva che “Amici” di Maria De Filippi era l’unica scuola che funziona in Italia. Un paradosso, un’iperbole, una provocazione che fece irritare parecchi. All’epoca Maria De Filippi era trash, non ancora sdoganata da sinistra (“qui si fa bullismo intellettuale contro la scuola!”, dicevano i più offesi: già si prendeva tutto alla lettera). Il punto naturalmente era “Amici” come catarsi televisiva dell’ascensore sociale bloccato. “Amici” come replica di un anno scolastico che ti prepara al mondo dello show-biz, forse trovi lavoro, vieni lanciato, ma solo in base al talento, mica col solito sistema della raccomandazione familista, del giro giusto, della predestinazione dei “ben nati” che arrivano dove vogliono. La meraviglia del programma però era tutta nel nome. Fino al 2003 si chiamava “Saranno famosi”, titolo didascalico per un talent di addestramento a canto, ballo, recitazione. Poi il colpo di genio. Per non pagare i diritti all’omonimo musical di Alan Parker e al vecchio telefilm, fu rinominato “Amici di Maria De Filippi”. Messo alla porta, il familismo rientrava dalla finestra: saper ballare potrebbe non bastare, meglio essere anche “amico di Maria”. Tutto più chiaro, tutto più familiare.