Burlone grandioso e scorretto, intrattabile e anticonformista, oggi sarebbe considerato anche islamofobo. La sua lotta in gioventù contro il fanatismo talebano gli fece scorgere prima di chiunque altro la vera natura di quello nazista
Churchill era paternalista, imperialista, guerrafondaio, ma avvertì con considerevole anticipo il pericolo dell’islamismo politico, del nazismo, del comunismo (tra gli anni Dieci e Quaranta del secolo scorso). Mise mano al problema appunto nel 1940, e organizzò la difesa in solitario dell’ultima democrazia europea a Londra, nei cieli e in mare; portò gli Stati Uniti, di cui era in parte figlio per via di una bellissima madre, a intervenire massicciamente e a vincere per conto di noi tutti; inaugurò poi la gentile e vittoriosa stagione della Guerra fredda. Non era omofobo e il suo segretario di trent’anni era omosessuale. Boris Johnson ricorda che, informato di un atto sessuale orale di un londinese su un soldato di Sua Maestà a Hyde Park, saputo che era un’alba di dicembre, osservò che era notevole la resistenza al freddo dell’esercito.
Non era misogino, tranne quando le suffragette alla ricerca del voto femminile suonavano le campane per disturbare i suoi comizi, cosa che lo infastidiva. Era un aristocratico squattrinato, erede del I duca di Marlborough: come ricorda il compianto Andrew Roberts nella bella biografia appena pubblicata dalla Utet, se lo storico francese Ernest Renan sosteneva che “tutte le civiltà sono state opera dell’aristocrazia”, Churchill rispondeva che “sarebbe stato molto più corretto dire che mantenere l’aristocrazia è stato il duro lavoro di tutte le civiltà”.
Correggeva dunque ma non era corretto. Grandissimo e prolifico scrittore e senza sua colpa Nobel per la Letteratura, il suo umorismo era come quello di Groucho Marx, lieto micidiale devastante. Ci ha riempiti di bugie e abbellimenti ornamentali del suo sfolgorante narcisismo: un’altissima opinione di sé era qualcosa che non gli mancava del tutto. Chissà come avrebbe liquidato le geremiadi contro l’orientalismo coloniale di Edward Said o lo spirito piagnone hillbilly dei nuovi padroni dell’America o il pacifismo woke dal fiume al mare dei fiancheggiatori degli ayatollah (dell’imperialismo straccione di Putin non ne parliamo proprio, era l’opposto del suo: Cortina di ferro, Iron curtain). Non lo sapremo mai, e questo è solo uno dei difetti incurabili del nostro tempo senza Churchill, a centocinquanta anni dalla sua benedetta nascita a Blenheim Palace, la Versailles inglese.
Non era intellettualistico, anzi, una volta disse che non avrebbe mai fatto uno sforzo intellettuale se qualcun altro avesse potuto farlo al posto suo. Amava l’azione, incassava sui diritti d’autore delle sue azioni, e come detto aveva sempre bisogno di soldi. Era un voltagabbana: portò la sua democrazia conservatrice dal partito Tory ispirato da Disraeli a quello liberale, con maggior gusto perché con i liberali vinse le elezioni e entrò al governo mettendo in mora i tentativi protezionistici dei suoi ex compagni di cordata. Era un giornalista, e questa è l’unica vera manchevolezza della sua intera biografia, se non fosse che ha usato i giornali senza lasciarsene minimamente influenzare.
Beveva con maggiore misura di quanto lui stesso si compiaceva di raccontare, era stato uno scolaro discolo, ma non così somaro come gli piaceva di rappresentarsi, parlava a rotta di collo, e quasi esclusivamente di sé nel mondo e per il mondo, era proprio insopportabile, e Giorgio V lo considerava non del tutto a torto un mascalzone. Non era un demagogo, però: di Lord Balfour, che dopo il tradimento dei conservatori era diventato il suo nemico preferito (Roberts), disse in un comizio: “Naturalmente il signor Balfour è un capo che fa tutto quello che i suoi seguaci gli dicono di fare, ma quando si accorge che sbagliano esegue senza convinzione”. Il prototipo dei radical chic, Beatrice Webb, sosteneva che era più simile a uno speculatore americano che a un aristocratico inglese, ma lei non era un campione di umorismo.
Il fatto che Churchill, Winston Churchill, non potrebbe fare due passi in una città o in un campus occidentale senza essere fischiato o forse incarcerato per il suo carattere intrattabile e il suo rifiuto del conformismo noioso, oggi che l’occidente è ancora preservato grazie a lui, suona a disdoro nostro. Sarebbe considerato tra l’altro islamofobo della variante Ratzinger. Infatti era molto critico, per averli conosciuti, con i talib, progenitori degli odierni talebani: “Una razza più degradata di qualsiasi altra, ai limiti dell’umanità: feroci come le tigri, ma meno puliti; altrettanto pericolosi, ma non così aggraziati”. Scrive Roberts che Churchill “riteneva che la loro insistenza su una forma di islamismo rigorosa tenesse gli afghani ‘in preda a una miserabile superstizione’ e pensava che ‘la loro religione, più di tutte le altre diffusa con la spada’ stimolasse ‘un fanatismo selvaggio e spietato’”. E ne conclude, il biografo: “Nessuno dei tre primi ministri britannici degli anni Trenta, cioè Ramsay MacDonald, Stanley Baldwin e Neville Chamberlain, aveva mai conosciuto personalmente un tale estremismo in vita sua, con la conseguenza che tutti e tre furono tragicamente lenti nell’individuare la natura dell’ideologia nazista. Churchill, che invece aveva combattuto contro il fanatismo in gioventù, ne riconobbe i tratti salienti prima di chiunque altro”.
Fu burlone grandioso anche in morte. Pensando a Charles de Gaulle, suo amico-nemico londinese dei primi tempi della disfatta e poi della vittoria contro Hitler, dispose che i suoi funerali passassero tassativamente per la stazione di Waterloo. Noblesse oblige.