In questo periodo arrivano i primi freddi, le liti nella maggioranza e le inaugurazioni delle stagioni d’opera. Al Costanzi si va di Simon Boccanegra nel consueto vertiginoso spiazzante frullato mondan-social-politico romano e anche un po’ romanesco delle prime locali: però hanno rinfrescato il teatro e le maschere sfoggiano la nuova livrea con un medaglione sul davanti che fa tanto Scala, o sommelier. Musicalmente, è una serata meravigliosa. Si sa che su questo Verdi aleggia il fantasma di Claudio Abbado, che lo tolse una volta per tutte dalla categoria dei capolavori da riscoprire periodicamente per inserirlo in quella dei capolavori imprescindibili. Ebbene, forse per la prima volta non si rimpiange Claudio Magno. Michele Mariotti il Simone l’aveva già fatto, nel 2007 appena diventato direttore musicale a Bologna da giovanissimo anti bamboccione: era promettente ma acerbo. Qui è maturo: nel solco di Abbado ma trascendendolo con una lettura personalissima, dove non si sa se ammirare di più il direttore o il concertatore.
E dunque un Prologo tutto sussurrato, misterioso, notturno; la cavatina di Amelia dove il mare è un personaggio come nel recente Peter Grimes; un Consiglio scabro, solenne ma agghiacciante negli anatemi; e un finale dove davvero la vita si scioglie nella straziante vanità del tutto, e noi con lei. E’ un Verdi in purezza, supremo cantastorie capace come al solito di esprimere quello che non riusciamo a dire. Ma poche volte, negli ultimi anni, con questa forza squassante. E poi quando c’è Mariotti sul podio gli orchestrali diventano i Römer Philharmoniker, e con il grande Ciro Visco il Coro è a livelli scaligeri. La lieta novella è che ci sono anche i cantanti, senza i quali fare un grande Verdi proprio non si può. Michele Pertusi, Fiesco, evidentemente tiene in soffitta un duplicato della laringe che invecchia al posto della sua: dopo quarant’anni di carriera la voce è ferma, morbida, fresca, e ogni volta che lui apre bocca è una lezione di canto. Eleonora Buratto, al netto di un paio di suoni fissi, è una delle rare Amelia/Maria a non far rimpiangere la somma Mirella Freni, e sempre più la ricorda. Quanto all’ignoto Gevorg Hakobyan, Paolo, che fior di vocione; che l’avesse anche Stefan Pop, Gabriele, invece sapevamcelo, ma è forse la prima volta che dimostra di saper cantare anche piano. E poi c’è il protagonista, Luca Salsi, baritono consustanzialmente verdiano, d’accordo, ma che in Simone trova davvero il suo personaggio migliore: non in ogni frase bensì in ogni nota c’è un colore, un accento, un’intenzione. Il duetto finale con Pertusi è una lezione universitaria su Verdi e sulla vita, che sono poi la stessa cosa.
La regia di Richard Jones non è invece un capolavoro, perché in altre occasioni ha fatto meglio, ma è una regia, non il consueto arredamento d’interni che in Italia viene spacciato per tale. Molto anglosassone: primo, raccontare, in un’opera il cui intreccio è meno lineare di un discorso di Giuli. Benissimo la denuncia della demagogia della politica, perché Verdi aveva capito i guasti del populismo prima ancora che fosse inventato, in una Genova metafisica alla De Chirico ma comunque con la Lanterna sullo sfondo. Amelia aspetta invece l’amato su una scogliera molto Cinque Terre (ma allora lui dovrebbe farsi quei due-trecento gradini per salire dal mare, non approdare direttamente), nel primo atto il Doge & soci indossano le gabbane medievali sui loro abiti contemporanei come succede nel Regno Unito nelle pubbliche pompe, il secondo è un atroce tinello anni Sessanta, nel terzo si ritorna a De Chirico, il Doge muore sulla stessa pietra della madre di sua figlia, e vegliato dalle stesse suore, mentre una bambina apre e chiude lo spettacolo, simbolo di quella voglia di paternità che è un tema portante dell’opera, e la grande delusione personale del suo autore. Nel complesso, funziona tutto o quasi: manca soltanto la bellezza delle immagini, che in Italia ci vuole. Gran successo finale da parte di un pubblico di rara molestia ma alla fine conquistato, anvedi ’sto Simone.