La svolta europea c’è, ma non basta. Test per il governo. Parla Giavazzi

Dalla Commissione alle banche. I test di europeismo che Meloni dovrà superare. “Il Mef ha fatto bene a varare una manovra economica prudente e a tenere sotto controllo i conti pubblici in continuità con il governo Draghi, ma nel complesso mi pare che questo governo non abbia una visione strategica del paese”

Decarbonizzazione, sicurezza, innovazione. Sono le tre priorità strategiche indicate da Ursula von der Leyen nel suo discorso al parlamento europeo dal quale ha ottenuto il via libera alla nuova Commissione che guiderà con una maggioranza più risicata rispetto alla prima. Ma ce l’ha fatta e la notizia più rilevante per l’Italia è che von der Leyen ci è riuscita grazie al voto determinante dei conservatori di Giorgia Meloni.

Per quanto questo voglia anche dire una spaccatura nei partiti della maggioranza di governo (la Lega ha votato contro), l’azione politica della presidente del Consiglio ne esce rafforzata sul piano europeo. Senza contare che l’Italia ha appena incassato da Bruxelles il via libera alla manovra economica per il 2025 e al piano pluriennale di sette anni mentre altri paesi sono in affanno.

Ma quali effetti avrà il cambio degli equilibri nella Commissione Ue sulla politica economica europea? L’Italia ne trarrà qualche beneficio? E come si coniuga la posizione europeista di Meloni con i paletti messi, per esempio, dal suo governo alla crescita dimensionale del settore bancario italiano? “I problemi cominceranno adesso”, dice al Foglio l’economista Francesco Giavazzi. “Sarà molto difficile conciliare le posizioni dei conservatori con quelle dei verdi sulla decarbonizzazione. I primi sono per un rallentamento della transizione energetica, i secondi per un’accelerazione e i popolari non sono poi tanto convinti come lo erano prima che si debba andare avanti tanto spediti. Non è un caso che Ursula von der Leyen abbia distribuito le deleghe tra i commissari in modo tale da avere l’ultima parola in questo campo”.

Insomma, la prima impressione è che il lavoro della nuova commissione parta in salita, almeno su uno dei temi strategici dell’Europa. “Sulla sicurezza sono meno preoccupato perché mi pare ci sia una diffusa consapevolezza dell’importanza di creare una difesa comune stanziando gli investimenti necessari. Quando Trump, perché è sicuro che lo farà, tornerà a chiedere che tutti i paesi europei raggiungano il 2 per cento del pil nella spesa militare, converrebbe farsi trovare preparati. Una posizione condivisa a livello di Unione sulla difesa renderebbe, tra l’altro, più facile il negoziato sui dazi che sempre Trump vorrà applicare all’importazione delle merci europee negli Stati Uniti”.

La Germania si mostrerà favorevole? “Penso di sì, ci sono già segnali che i tedeschi siano propensi all’emissione di debito comune per la spesa militare”. Una sorta di Pnrr della difesa? “Magari non di grande entità, ma è questa, immagino, la direzione in cui si dovrà andare”.

E cosa succederà con l’innovazione? “Per l’Italia sarà una sfida complessa perché innovazione vuol dire soprattutto finanziare la ricerca, da quella di base agli investimenti per far crescere le imprese innovative. Sarà molto impegnativo considerando che il nostro paese spende una percentuale del pil inferiore rispetto alla media europea. Su questo, però, penso che occorra anche un cambio di passo della Commissione europea nei finanziamenti alla ricerca. Oggi la Commissione è più propensa a finanziare progetti e obiettivi fissati calati dall’alto che a sostenere lo sviluppo di idee e innovazioni che vengono dai ricercatori. Il contrario di quello che avviene negli Stati Uniti”.

Quanto costerà all’Europa tutto questo? Se la presidente della Commissione ha citato espressamente il piano Draghi vuol dire che ha anche in mente una dimensione di spesa. “Non credo che il rapporto Draghi abbia citato la cifra di 800 miliardi all’anno a casaccio. E’ quello che servirebbe per finanziare una nuova fase di crescita europea”. Intanto, l’Italia ha scarsi margini fiscali e deve tenere sotto controllo il debito secondo le regole del nuovo patto di stabilità. “Il Mef ha fatto bene a varare una manovra economica prudente e a tenere sotto controllo i conti pubblici in continuità con il governo Draghi, ma nel complesso mi pare che questo governo non abbia una visione strategica del paese. Dove sta andando l’Italia? Che cosa vuole diventare, un paese dove si viene in vacanza, come pensano tanti americani, oppure vuole contare sulla scena economica internazionale? Abbiamo tante eccellenze nel settore manifatturiero e non solo, ma per competere c’è bisogno di campioni nazionali anche in campo finanziario e bancario”.

Per Giavazzi è poco comprensibile la posizione assunta dal governo Meloni sull’ops lanciata da Unicredit su Banco Bpm perché sembra quasi voler ostacolare la nascita di un nuovo grande gruppo bancario italiano che si collocherebbe ai primi posti in Europa in una fase cruciale come questa. “Unicredit-Bpm renderebbe più forte e competitivo il nostro paese non più debole. Perciò mi pare un controsenso la posizione di alcuni ministri, giustificata, tra l’altro con la necessità di dar vita a una media banca tutta domestica quale quella che nascerebbe dalla fusione tra Banco Bpm e Mps. E tralascio l’inopportunità di rilasciare dichiarazioni, come hanno fatto alcuni esponenti dell’esecutivo, su un’operazione di mercato. Sorprende che nessuno degli attori coinvolti abbia fatto rilevare tale inopportunità”. Il ministro Giorgetti ha ventilato la possibilità di esercitare la golden power, che ne pensa? “Sarebbe una scelta legittima, ma incomprensibile dal mio punto di vista. In più qualcuno dovrebbe anche dire la verità al mercato: Banco Bpm la vuol fare o no la fusione con Mps? I vertici della banca milanese continuano a negare quest’ipotesi, il ministro Salvini afferma che si farà. Chi dei due dice mente?”.

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