Le difficoltà del Manchester City mettono in crisi più il guardiolismo che Guardiola

Cinque sconfitte consecutive l’allenatore catalano non le aveva mai subite. Ha rinnovato il contratto con il City e ora prova a trovare il modo di ricostruirsi, alla faccia dei suoi tanti devoti e cloni

Dio è morto, la marcatura a uomo pure e anche gli adepti del guardiolismo non si sentono molto bene. Le cinque sconfitte consecutive del Manchester City – e dunque di Pep Guardiola – cominciate in Carabao Cup, continuate in Champions e finite (finite?) in Premier League – e insomma: miseria nera in tutti i luoghi e in tutti i laghi – hanno la parvenza di una striscia negativa, ma in realtà annunciano l’Armageddon. Nel falò delle perdute vanità e delle immaginifiche strategie tattiche con cui Pep da anni intrattiene le folle adoranti, lingue di fuoco si alzano verso il cielo, saettando come De Bruyne, ai bei tempi. (A proposito: che fine ha fatto De Bruyne? E’ tornato un paio di settimane fa ad assaggiare il campo dopo quasi due mesi di stop per infortunio e ora – scarsi i risultati – sta provando a ritornar se stesso, esattamente come stanno facendo il Pallone d’Oro Rodri, l’ex enfant prodige Foden, il granitico Stones e via celebrando i campioni di un tempo).

Costretto dall’inattesa piega degli eventi a considerare il fallimento – e vien da immaginarlo come Malcom McDowell in Arancia Meccanica con le palpebre spalancate da un divaricatore oculare – l’uomo che ha innescato la new age del calcio ora commenta che “non ho mai vissuto una situazione così” e che comunque “niente dura per sempre, rilassatevi tutti…” E i suoi discepoli aggiungerebbero: rilassatevi voi che ora cercate famelici come iene la carcassa del Copernico con il maglioncino girocollo nero. Eppure, tutto è stato bellezza in quel movimento artistico – la Pep-Art – che in contesti diversi (Barcellona, Bayern Monaco, City) ha espresso la riproducibilità del tiki-taka, del falso nueve, della costruzione dal basso, dei terzini che “entrano” in campo e sequestrano la cabina di regia, dello spazio che è il mio centravanti, anche se lì dove c’era il vuoto cosmico riempito dalle magie di Messi oggi c’è Robocop Haaland. Ma tutto, anche, finisce prima di finire. A darne contezza: lo 0-4 casalingo di sabato, contro un Tottenham ringalluzzito da tanta altrui mediocrità, una sconfitta che stabilisce il punto più basso degli anni di Guardiola a Manchester.

La vulnerabilità non si addice a Pep. E forse è (anche) per questo che con un colpo di coda non previsto dalla sceneggiatura, in questi giorni ha annunciato il rinnovo del contratto, con scadenza 2027, nonostante i noti guai – mancato rispetto del fair play finanziario – del City, aggrappato alla sentenza di quello che è già stato definito “il processo del secolo” e zavorrato da infrazioni contestate in numero di 115 (80 finanziarie e 35 di mancata collaborazione con le indagini avviate dalla Premier) e seminate in 14 anni in cui il club di proprietà del consorzio Abu Dhabi United Group (Adug) ha stravolto i connotati del calcio. Barando, forse. Rischiando molto, ora. Tira un’aria pesantissima, ma Guardiola ha già individuato un nuovo orizzonte e (sicuro) troverà come il mago Copperfield un nuovo verbo. Il problema però non è il Guardiola che è in lui, ma il Guardiola che è in noi. Come sentinelle che non cedono al sonno, nell’ora più buia (questa) i Guardiola-Boys vegliano in attesa che una nuova rivelazione riempia loro la vita, o almeno l’area di rigore in una transizione difensiva.

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