I socialdemocratici tedeschi hanno deciso di affidare la propria corsa verso le elezioni anticipate di febbraio al cancelliere uscente, che come da tradizione ha la precedenza sugli altri possibili candidati. Ma la sua popolarità è a picco
Come si dice tafazzismo in tedesco? Una premessa: una certa attitudine all’autolesionismo in Germania non è esclusiva della sinistra. Prendiamo il caso di Armin Laschet. Per un gioco di consorterie imperscrutabili ai mortali, nell’aprile del 2021 il poco carismatico Armin si impose quale candidato cancelliere dell’Unione Cdu-Csu. Infilata una serie di gaffe al fianco di Elon Musk e soprattutto ridacchiando in diretta tivvù come uno scolaretto in gita mentre in prima fila la cancelliera Angela Merkel piangeva le vittime di una devastante alluvione in regione renana, Laschet sbriciolò il poco consenso che aveva e alle elezioni perse contro il socialdemocratico Olaf Scholz. Particolare importante: non fu Scholz a vincere ma Laschet a perdere. La Cdu-Csu si mangiò le mani tanto più che al posto del generale Laschet, forte solo del titolo di presidente della Cdu, avrebbe potuto schierare il più sanguigno colonnello Markus Söder, leader della Csu e governatore bavarese, contro il quale nulla aveva Merkel che, anzi, mesi prima gli aveva concesso di portarla a fare un giro in barca sul lago a favore di telecamere.
Oggi ci risiamo. A parti invertite. Non paga di andare malissimo nei sondaggi, la Spd del cancelliere uscente Olaf Scholz ha deciso di affidare la propria corsa verso le elezioni anticipate di febbraio a un politico di rara impopolarità, ossia lo stesso Scholz. Con l’aggravante di non avere nemmeno la scusa dietro alla quale si nascose a lungo la Cdu con Laschet perché oggi Scholz non è il leader della Spd né lo è mai stato. Perché non hanno allora scelto il ben più popolare e comunicativo ministro federale della Difesa Boris Pistorius per guidare le truppe socialdemocratiche? Oppure il presidente della Spd, Lars Klingbeil? “Perché la tradizione della Spd è che il cancelliere uscente ha la precedenza sugli altri possibili candidati del partito”, spiega al Foglio Gero Neugebauer, politologo della Freie Universität Berlin, espertissimo delle dinamiche interne al più antico partito di Germania. “E’ successo per esempio nel 2002 e nel 2005 con Gerhard Schröder che si ricandidò quale cancelliere uscente, ma non era leader del partito. E allo stesso modo”, ricorda ancora il professore, “il leader della Spd Sigmar Gabriel non si candidò nel 2009, lasciando l’incombenza a Frank-Walter Steinmeier, né nel 2013, quando a correre fu Peer Steinbrück, né ancora nel 2017”, quando lasciò che fosse Martin Schulz a sfasciarsi contro Angela Merkel. Insomma, i socialdemocratici tedeschi sono quanto di più lontano dalla tradizione britannica del capo del partito che diventa di diritto candidato premier.
E così oggi la Spd ha deciso di candidare di nuovo l’algido Olaf che, spiega ancora Neugebauer, dovrà giocarsi il “bonus” di correre da cancelliere, ossia con maggiore visibilità sui media grazie al maggior accesso agli stessi e con maggiore esposizione anche a livello internazionale. Certo, la popolarità di Scholz è a picco mentre quella di Pistorius è la più alta fra tutti i politici da ormai due anni. Ma nella logica dei quadri Spd il successo di un’elezione si costruisce su tre assi: l’offerta politica, l’offerta personale (ovvero chi è il candidato), e l’adesione al partito (voto Spd perché l’ho sempre fatto). E nelle elezioni del 2021, quelle vinte da Scholz grazie alla pessima performance di Laschet, per ogni 100 voti dalla Spd “quelli che arrivarono grazie alla candidatura di Scholz furono meno del 30 per cento, gli altri erano legati agli altri due fattori”. In un altro paese avrebbero scelto un altro cavallo? Una speculazione inutile. Oggi c’è lui, ma certo, ammette Neugebauer, Scholz dovrebbe imparare a comunicare meglio “e non concentrarsi solo su quello che intende dire ma anche come chi lo ascolta lo percepisce davvero”.