,“Sciusten feste n. 1965” diventa una successione di numeri espressionistici, interpretazioni tirate, frenetiche, sgocciolanti sentimenti ma intrise di amarezza, condotte da strumenti apparentemente indisciplinati che sembrano volere andare ciascuno per gli affari propri
Stracarico di simbologie suggestive (Parigi anni Dieci? Chicago anni Venti? Avezzano anni Trenta?), il mejo bizzarro della canzone italiana si rifà vivo con un album, il tredicesimo della sua produzione di studio, che è quanto di più improbabile ci si potesse attendere da lui: un disco di canzoni di Natale, giusto in tempo per celebrare le feste nel più strambo ambiente sonoro che si potesse immaginare. “Sciusten feste n. 1965” è il titolo del lavoro, che unisce l’anno di nascita dell’autore con una storpiatura di Schützenfest, il nome delle fiere tradizionali popolari in Germania, Austria e Svizzera, nelle quali l’evento più atteso è costituito da gare di tiro al bersaglio, mentre attorno risuona instancabilmente la ghirlanda di inossidabili motivetti natalizi. Ovviamente il tutto nella rappresentazione di Vinicio diventa qualcosa di diverso, distorto, immerso nella fantasia e nel sogno, viene da pensare, visto attraverso lo sguardo allucinato di un emigrante che, stretto nel suo pastrano, assiste tra i fumi dell’alcol a una celebrazione estranea e incomprensibile, mentre la nostalgia gli strizza le budella.
Ecco perciò che il concetto di canzoniere natalizio, nella rivisitazione di Capossela, diventa una successione di numeri espressionistici, interpretazioni tirate, frenetiche, sgocciolanti sentimenti ma intrise di amarezza, condotte da strumenti apparentemente indisciplinati, che sembrano volere andare ciascuno per gli affari loro, mentre lui a tratti canta con distrazione e a momenti con melodramma, nella parte di un ambulante con troppi pensieri nella testa. L’effetto è notevole, stupisce e colpisce, partendo dall’assunto, nelle parole dello stesso Vinicio che “sono canzoni che danno spazio all’anima della festa, ai trambusti, agli abbracci, alle lacrime, alle redenzioni, alle rivoluzioni, alle ribellioni, ai trabocchi e agli sgambetti della stagione in cui si sospende il tempo dell’utile”. Del resto appartiene al puro spirito di Capossela pensare al momento della festa come a quello del lutto, e alla gioia come a una coperta della rabbia: tutto è contraddizione, l’ordine è una prigione e solo nella liberazione dal caos si scorge il rinfrancante battito del cuore che segnala la presenza del gesto d’arte. E poi, quanto a germanici mercatini di Natale, Capossela è nativo proprio di quei posti, Hannover, la città dove più di ogni altro la Schützenfest è attesa tutto l’anno nemmeno fosse San Gennaro e il risuonare per le strade di “Bianco Natale”, “Jingle bells” e “Santa Claus is Coming to Town” finisce per diventare un’ossessione interminabile, come nemmeno nei corridoi di Macy’s durante una sventurata vacanza americana.
Infine Capossela, messo in atto un progetto di questa temperatura, non poteva non approfittarne per associare alla sfilata di motivetti natalizi una nutrita serie di altre stravaganze di varia provenienza, quasi sempre con l’ambientazione da piccola jazz band distopica, nel solco che fu a suo tempo aperto dal benemerito Tom Waits e, ancor prima, dalla tradizione ridanciana e isterica degli chansonnier italo-americani da nightclub, come Louis Prima, Lou Monte, e quel Nicola Antonio Forte che piaceva tanto a Woody Allen (già, Woody potrebbe essere intrigato da questo lavoro di Capossela e, a pensarci, un sodalizio tra i due potrebbe dare frutti strani). Tra gli scampoli dell’album segnaliamo la rilettura, addirittura in doppia versione, di “I Wanna Be Like You”, uno swing che Vinicio va a ripescare nella soundtrack de “Il Libro della Giungla”, pellicola Disney che gli è molto cara. Poi un’azzeccata traduzione di “Christmas Card From A Hooker In Minneapolis”, di nuovo del maestro Tom Waits, nella quale “Omaha” diventa “Scandiano” e ancora, non volendosi far mancare niente, la rilettura dell’inno evangelico “Abide with me” che diventa “Sopporta con me”, un paio di marcette paesane come “Il Friscaletto” e “Il Guastafeste” e un brano-commiato da avanspettacolo di periferia come “Dankeschoen” (“tutto ha una fine ragazzi / solo il wurstel ne ha due” sono i memorabili versetti di chiusura) oltre a un discreto contributo di inediti: tre pezzi tra i quali spicca “Voodoo Mambo”, che è ciò che enuncia il titolo e gode della preziosa partecipazione del chitarrista americano Marc Ribot.
Nel complesso una strenna caposseliana che manderà in sollucchero i seguaci e divertirà gli ascoltatori di passaggio. Magari un lavoro un po’ di conserva, ambientato dall’autore in un territorio musicale familiare, con molti coriandoli, un’eccellente band e poche sorprese, il che, in fondo, è un piccolo torto, da colui che si è inoltrato nell’inconsueto apolide, come territorio di caccia. Ma che a ogni suo manifestarsi, anche in prossimità del bianco Natal, gronda sempre di tormento e stile, nemmeno davvero fosse l’ultimo, irriducibile degli indipendenti.