Dici Sanremo e pensi a Napoli. Quando c’era l’altro festival

Dal ’52 al ’71 la kermesse della canzone napoletana portò sul palco Nilla Pizzi e Gaber, Claudio Villa e la Vanoni. Nel backstage e non solo volavano spesso ceffoni. Storia di una manifestazione turbolenta

Dudù: “Baro’, quando ci sta il Festival della canzone partenopea?”. Barone: “Il 24, aggio già accattato ‘e bigliette!” (Dino Risi, “Operazione San Gennaro”)

Canzoni e schiaffoni, chitarre e gazzarre, rinunce e denunce, professori e guappi. Il Festival della canzone napoletana fu per la musica italiana una rosa profumata e piena di spine, che ispirò tanta cronaca quanto durò: quasi vent’anni, dal 1952 al 1971. Al confronto, le polemiche e i magheggi di Sanremo sembrano dissapori da educandato svizzero, eppure dalla incandescenza flegrea del Teatro Mediterraneo, dove si tenne il più delle volte la manifestazione, scaturirono classici di successo come Tu si’ na cosa grande, Lazzarella, Guaglione, Indifferentemente.

Il Festival rivaleggiò con quello di Sanremo e sovente ne insidiò il primato, assumendo da subito una dimensione nazionale che attrasse i maggiori esponenti della musica leggera, componendo e cantando tutti per regolamento nell’idioma napoletano, da Nilla Pizzi a Giorgio Gaber, da Claudio Villa alla Vanoni. Non più capitale, non soltanto capoluogo, Napoli nel ventennio della manifestazione si espresse per quel che era e forse è ancora: una curiosa città-stato (anche come stato d’animo), esuberante d’arte e di mazzate, di ritmi e melodie sul palco e di sceneggiate vere sotto, quasi sempre faide intestine da cui uscivano indenni, ma si ritrassero talvolta spaventati, i concorrenti della compagine del nord. Fu infatti caratteristica del Festival la divisione degli artisti in due categorie: squadra napoletana e squadra del nord, con doppia interpretazione dello stesso brano e spesso doppia orchestra. Un dualismo, o un tentativo di unità, con cui la musica leggera ricalcava l’eco pesante della “questione meridionale”. La storia della manifestazione, afferma il princeps dei musicologi napoletani Pasquale Scialò, “rappresenta un terreno disseminato di ostacoli e contraddizioni, liquidato di frequente con forti giudizi negativi, specie sulla gestione dell’evento. Senza dubbio si tratta di una scena competitiva fitta di turbolenze e spesso bersaglio di critiche per le scelte adottate, i criteri di votazione e i verdetti finali”, in cui non furono rare le “paccariate, ossia sequenze sonore di schiaffi e pugni”.

L’epoca racchiusa nella lunga parentesi tra l’inizio e la fine del Festival comincia con l’avvento dell’armatore Achille Lauro, ’o comandante, ritratto com’era nel film Parthenope di Paolo Sorrentino, una sorta di monarca che il 7 luglio del ’52 è proclamato sindaco in Consiglio comunale ma ha già coronato la vittoria elettorale pochi giorni prima, da presidente del Napoli, con l’acquisto del centravanti Hasse Jeppson per la spropositata cifra di 105 milioni di lire. Su tutt’altro scenario calerà il sipario del Festival nel 1971, anche se precisione imporrebbe di datarne la fine all’anno prima perché l’ultima edizione non si poté tenere: il questore la sospese per motivi di ordine pubblico, mentre il procuratore della Repubblica indagava e la Rai ritirava in fretta le telecamere. Fu un anno turbolento il ’71 anche fuori dal teatro, con decine di proteste di piazza. A Napoli manifestavano tutti: 40 mila edili meridionali, 40 mila studenti, 25 mila metalmeccanici, mentre un giorno sì e l’altro no cortei di senzatetto o di disoccupati affollavano questa curva della storia tra il ’68 e gli anni di piombo, tra la vecchia guapparia e l’affluente camorra, ma sui giornali gli scippi facevano ancora notizia.

Se l’inizio del Festival corrispose all’ascesa di Lauro a Palazzo San Giacomo, la sua fine precedette di poco l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale il 27 dicembre 1971. Entrambi, come molte migliaia di illustri o anonimi partenopei, avevano messo voce nei tanti capitoli della kermesse canora. Per esempio nell’edizione del 1961, quando Lauro sovvenzionò direttamente il Festival insistendo sulla sua valenza turistica ma commise l’errore di ribattezzarlo Giugno della canzone napoletana, denominazione che non fu perpetuata. Dal 1960 s’incaricava dell’organizzazione l’Ente per la canzone napoletana, che ebbe sorte parimenti tribolata. Nel ’61 ne divenne presidente il deputato democristiano Ferdinando D’Ambrosio affiancato da due insigni onorari: il maestro E. A. Mario, autore di celeberrimi successi (citazione d’obbligo per La leggenda del Piave) e per l’appunto il futuro capo dello stato, Giovanni Leone. Ma già l’anno successivo l’Ente mostrava le crepe aperte dai contrasti interni finché alcuni dissidenti ne sortirono. Il vocabolo con cui vennero additati sarebbe stato utilizzato molto tempo dopo per descrivere una cruenta fazione di camorra: gli “scissionisti”. Se n’andarono a fondare l’Ente Salvatore Di Giacomo, che avrebbe concorso con una quota autonoma alla scelta dei brani per il Festival. Ne fu eletto presidente un altro onorevole democristiano, l’industriale del guanto Giuseppe Muscariello, già monarchico, consegnato alle cronache politiche tra “i sette puttani” che determinarono la caduta dell’amministrazione comunale Lauro. Conviene tuttavia guardare alle canzoni, di cui l’annalista del Festival Antonio Sciotti è stato minuzioso esploratore, prima di tornare tra i rovi infiammati del backstage.

L’orologio riparte dal 23 settembre del ’52, prima serata della prima edizione in diretta radiofonica condotta da Nunzio Filogamo, con l’intervento di numerosi ospiti della cultura e dello sport. Sin dall’avvio, il Festival presenta la caratteristica contraddittoria di accostare l’alto al basso, l’intellettuale al “fetente”, con una contiguità che rimonta all’epoca borbonica per cui la metropoli è come un vecchio condominio dove a ogni piano del palazzo, a cominciare dal “vascio”, alligna una diversa umanità. Così, la commissione che seleziona i venti brani in gara è diretta all’esordio da Gino Doria, illustre letterato della cerchia crociana, e non sarà un caso isolato. Nell’edizione del ’56 presiederà la commissione il più insigne sodale di don Benedetto, Fausto Nicolini, con cui s’accapiglierà il maestro Enzo Bonagura perché gli ha riaggiustato una canzone (trasposte in un contesto nazionale, certe peculiarità napoletane sanno d’inverosimile: nessuno mai immaginerebbe un Bobbio che litigava con Celentano per la modifica di un brano).

La prima volta del Festival è comunque un successo. Nilla Pizzi, già due volte vincitrice di Sanremo, trionfa con Desiderio ’e sole da cui sarà tratto un film omonimo. L’unica dissonanza la canta E. A. Mario, protestando pubblicamente per la sua assenza che “ha tutti i caratteri dell’esclusione”, anche se ammette: non avrebbe partecipato alla gara, “perché non ho mai creduto né alla schiettezza né all’efficienza dei concorsi, anche perché la storia della canzone di Napoli è costituita di canzoni celebri, quasi sempre solennemente bocciate”. Ha ragione: nel ’56, quando il Festival è ormai trasmesso in televisione, vince il brano Guaglione rifiutato alla vigilia da Claudio Villa e bistrattato dalla stampa. Una toppa clamorosa perché il motivo, portato al successo da Aurelio Fierro, resterà a lungo in testa alle classifiche e gonfierà i botteghini di un film. Non è l’unico abbaglio dell’anno: la commissione esclude dalla gara due eccellenti, Renato Carosone e Domenico Modugno, ma anche Totò subirà l’ostracismo nelle edizioni seguenti e ne resterà amareggiato, prendendola però con la sua tipica filosofia.

Chi invece la prese malissimo fu l’autore de L’oro di Napoli, Giuseppe Marotta, che aveva riscoperto la passione giovanile per le canzoni e nel ’57 si raccomandò all’amico Mario Stefanile, critico letterario, membro della commissione selezionatrice. Quando seppe dell’esclusione di entrambi i brani di cui aveva composto i testi, gli mandò una lettera di fuoco pregando “di non salutarmi più se ci incontriamo. Desidero fare intorno a me il Sahara, in questa adorabile e ignobile città. E ci riuscirò”. La risposta piccata di Stefanile surriscaldò l’animo di Marotta: “Con inaudita protervia di nano mi insulti e non appena ci incontreremo ti tratterò come hai deciso di essere trattato”. Le minacce si concretarono quando i due s’incrociarono per caso in via Toledo: lo scrittore assestò un paio di paccheri al “protervo nano” e gli ruppe gli occhiali (il referto ospedaliero riscontrò contusioni guaribili in dieci giorni). La lite assurse a caso pubblico, suscitò un fondo del direttore del Mattino, Giovanni Ansaldo, e rischiò di provocare ulteriori conseguenze perché Marotta attaccando Stefanile aveva tirato in ballo spregiativamente altri giornalisti parolieri: Augusto Cesareo e Marcello Zanfagna. Il primo glissò ma il secondo mandò i padrini a Marotta, come sarebbe stato normale ai tempi di Scarfoglio e D’Annunzio. “La sfida, comunque, sfumò perché lo scrittore dichiarava di non avere inteso offendere Zanfagna”, raccontò Renato Caserta in un libro dal titolo esplicito: Canzoni e risse. Era intercorso, tra i due, già qualche precedente desumibile da una monografia sulle lettere inedite di Marotta di Salvatore Maffei, il quale raccolse la confidenza dalla voce dello scrittore. Questi, che aveva rinfacciato a Zanfagna il plagio di certe sue prose, riferiva pure l’ineffabile discolpa dell’accusato: “Io vi seguo da quand’ero un ragazzo ed è probabile che, leggendo e rileggendo tutto quello che avete pubblicato, abbia finito per assimilarvi a tal punto da usare brani vostri senza rendermene conto. Da oggi, ve lo giuro, mi controllerò”.

L’edizione del ’57 sarà comunque ricordata per la vittoria di Malinconico autunno e per il successo commerciale di Lazzarella, frutto dell’aureo sodalizio tra Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno (anche se il riferimento alla gravidanza della giovanissima protagonista subì una censura).

Pesava sul Festival, come appare dagli episodi richiamati, l’impronta dei giornalisti, che spesso assunsero il doppio ruolo di giudicanti e giudicati, non tanto per i tortuosi meccanismi con cui, anno per anno, venivano votate le canzoni in concorso – giurie in sala, giurati telefonici a sorteggio o disseminati nelle sedi Rai – quanto per la selezione dei brani ammessi alla gara. Gli interessi commerciali della discografia locale, le aspirazioni degli interpreti e le velleità degli impresari che bazzicavano nella Galleria Umberto I s’intrecciarono a un’eredità ottocentesca tipica di Napoli, quella dei giornalisti scrittori che fanno anche i poeti e i parolieri, come era stato per Libero Bovio e Ferdinando Russo. Nel 1958 Aurelio Fierro e Nunzio Gallo portano alla vittoria Vurria, musicata da Furio Rendine con testo di Antonio Pugliese, caporedattore del Roma e padre dello scrittore Nicola, futuro autore del romanzo Malacqua, capolavoro semidimenticato poi riscoperto e tradotto in molte lingue.

Nel 1959, con la direzione artistica di Aldo Bovio (giornalista e figlio del celeberrimo Libero, l’autore di classici come Lacreme napulitane e Zappatore), per ridurre il peso dei discografici il regolamento stabilì che le canzoni potessero essere presentate direttamente dagli autori. Vinse a sorpresa Roberto Murolo con Sarrà chi sa!, la Pizzi ricamò Vieneme ’nzuonno di Zanfagna e Pugliese propose Accussì, musica di Mario Ruccione, che in un’altra èra aveva vestito di note Faccetta nera, La sagra di Giarabub e La canzone dei sommergibili. Curiosità forse non irrilevante: a Mario Miccio, giornalista anche lui e partecipante con il brano ’A rosa rossa, scrisse la musica un resipiscente Giovanni D’Anzi, milanese e di più. Nel 1935 aveva firmato O mia bela Madunina, canzone manifesto che lamentava l’egemonia canora partenopea con qualche tocco di risentimento: “Canten tucc ’lontan de Napuli se mor’ / ma po’ vegnen chi a Milan” (D’Anzi compose pure il testo, ma era figlio di emigranti meridionali).

Purtroppo anche nel ’59 volarono gli schiaffi, ma stavolta durante la manifestazione e la Rai oscurò il collegamento. La zuffa scoppiò nella prima delle tre serate, quando gli autori delle canzoni escluse dalla finale invasero palcoscenico e camerini costringendo la polizia a intervenire. Si distinse per foga e stazza il poeta compositore Enzo Di Gianni: prima aggredì il presidente dell’Assostampa Napoletana Adriano Falvo (figlio di Rodolfo, il musicista di Dicitencello vuje) poi s’avventò nel foyer su Augusto Cesareo, che si fece medicare in ospedale e sporse denuncia. La calma fu ristabilita solo alle tre del mattino nel Teatro Mediterraneo, dove s’era consumata la battaglia tra tifosi dei cantanti ammessi e fan degli esclusi. Su richiesta di Falvo, il questore dispose la sorveglianza rafforzata per le serate successive e l’allontanamento dai dintorni di sospettabili facinorosi.

L’anno dopo l’Assostampa pensò bene di passare la mano dell’organizzazione all’Ente per la canzone napoletana. Stavolta non ci furono problemi di ordine pubblico, ma a infiammare l’evento provvide Guglielmo Chianese alias Sergio Bruni, artista dal leggendario caratterino, il quale contestò la scaletta della seconda serata che a suo dire avrebbe favorito Claudio Villa facendolo esibire per ultimo. Poco prima della diretta, Bruni scomparve dal teatro mandando nel panico gli organizzatori che lo sostituirono con qualche difficoltà. Malgrado l’assenza, i suoi brani si qualificarono per la finale e allora Bruni ci ripensò. L’indomani si presentò tranquillamente per disputare l’ultima serata, con un certificato medico in cui attestava di aver sofferto di una crisi nervosa il giorno prima. Non immaginava che la bizza non gli sarebbe stata perdonata, perché gli altri cantanti fecero blocco annunciando forfait se Bruni fosse stato riammesso. La spuntarono, ma a prezzo di messaggi minatori ad Aurelio Fierro, considerato il capo dei “rivoltosi”, e a Claudio Villa che steccò il brano, turbato da una telefonata anonima in albergo che minacciava la vita di suo figlio. Il titolo della canzone vincitrice, Serenata a Margellina, sarebbe rimasto associato a Flo Sandon’s e Ruggero Cori, un oscuro orchestrale che rimpiazzando Bruni beneficiò di alcune stagioni di gloria.

Ne avrebbe combinata un’altra, il collerico interprete, nell’edizione del 1968 condotta da Mike Bongiorno e già partita male per il ritiro di Nino Taranto e Gloria Christian, bersagli loro stavolta di telefonate minatorie. Caso volle che alla gara partecipasse l’artista palermitano Antonio Signorino, il quale usava lo pseudonimo di Tony Bruni. Il Sergio lo soffrì come un atto di lesa maestà, ma il caso si risolse da sé perché il secondo Bruni non arrivò in finale. Il peggio però doveva ancora arrivare: Bandiera bianca, il brano abbinato a Bruni e a Maria Paris, si classificò secondo dietro Core spezzato, interpretato da Tony Astarita e Mirna Doris. Bruni, che non pensava di conquistare il podio, se n’era andato e dovette riguadagnare in tutta fretta il teatro, dove Mike non vedendolo aveva già saltato l’esecuzione d’onore di Bandiera bianca e ordinato a Astarita la rituale ripetizione della canzone trionfatrice. Bruni, tornato in maniche di camicia, volle cantare ugualmente il proprio pezzo. Accadde il finimondo: Mirna Doris infuriata si lanciò sul palcoscenico e dovettero immobilizzarla i poliziotti, mentre i fan di Bruni reagivano con pari veemenza. I tecnici della Rai, scrisse l’inviato del Tempo, “dovettero fare capriole per evitare che ai milioni di telespettatori trapelasse quello che veramente avveniva: proteste, schiaffi, pugni, svenimenti”. In platea furono botte tra sostenitori e denigratori del maestro. Fu, commentava Il Tempo, “lo spettacolo del cattivo gusto, lo show della violenza o del malcostume”. Rievocando la gazzarra, Renato Caserta, addetto stampa dell’Ente per la Canzone Napoletana, rincarò: “Il palcoscenico, il bar del teatro, la sala erano pieni di rappresentanti della malavita: quasi un trionfo della guapparia, sottolineavano vari giornali. Altro che abito da sera, com’era scritto sui biglietti d’invito o a pagamento: spiccavano qua e là sudice magliette rosse o cocozza sopra pantaloni bianchi o verdi”.

Eppure, malgrado le miserie, il Festival annoverò molti splendori, segnò il passaggio (e il contrasto) dal repertorio di matrice classica allo swing, al jazz, al beat, al rock, accogliendo in misura diversa le tendenze evolutive della musica napoletana di quel ventennio, con una destinazione nazionale o internazionale. Nell’edizione del ’64, forse la più riuscita grazie al tocco magico di Gianni Ravera, s’impose Modugno con Tu si’ na cosa grande in tandem con Ornella Vanoni, che sarebbe diventato un classico (ma che la stampa all’inizio bocciò); nel ’66, quando Pugliese rivinse con Bella, il motivo più popolare risultò senz’altro ’A pizza interpretato da Fierro e Gaber, e pur se eliminata Ce vò ’o tiempo di Peppino di Capri e i Rockers godrà di un longevo successo.

La caratura napoletana del Festival non riguardò solo la lingua, ma certi atteggiamenti di costume: nell’estate del ’67, unica edizione con il ricorso al playback e grande attenzione alla trasparenza del voto, proveniente da otto diverse giurie, stravince Nino Taranto: al primo posto con ’O matusa e al secondo con ’A prutesta, due brani di sfottò ai “capelloni”. Già in gennaio, La rivoluzione veniva liquidata a Sanremo con l’omonimo brano scritto da Mogol e cantato da Gianni Pettenati, che auspicava per le inquietudini giovanili un finalino a tarallucci e vino (la canzone fu menzionata assieme a Io, tu e le rose nel bigliettino d’addio di Luigi Tenco, che si tolse la vita “come atto di protesta”). Però al Festival di Napoli i fermenti che preludono al ’68 vengono addirittura ridotti a “macchiette”: “Tagliateve ’e capille, jettate ’sti cchitarre… ‘na prutesta voglio fa’ pe’ chiste figlie beat, / nun ’e ppozzo suppurtà pecché so’ troppo brutte”. E’ quel che al cinema ricalcherà Totò nella sua ultima fatica sul set, Il mostro della domenica, diretto da Steno per il film a episodi Capriccio all’italiana distribuito dopo la morte dell’attore, che impersona un anziano la cui mania è rapare i “capelloni”. “Sorge spontanea la domanda: la ripresa in questi anni della ‘macchietta’”, s’interroga Scialò, “è un modo benevolo per indagare sulle mode correnti o rappresenta una sottile arma per burlare e smontare la portata della protesta giovanile?”. “Ah, saperlo!” avrebbe commentato Pazzaglia.

Il Festival risplenderà degli ultimi bagliori nel ’70, quando intercetta nuovamente un dato di costume tra polemiche e censure, con la canzone ’O divorzio interpretata da Franco Franchi e Angela Luce, mentre in Parlamento si discute della famosa legge Baslini Fortuna sullo scioglimento del matrimonio e si teme che il brano possa influenzare il dibattito. (Oltre a questa tempesta, un’altra di tipo meteorologico s’abbatte quell’anno sulla piazzetta di Capri, dove s’è deciso di tenere il Festival dinanzi al pubblico seduto ai tavolini del caffè. S’è sfilato dalla gara Sergio Bruni, dicendo che non vuol cantare mentre sente il tintinnìo dei cucchiaini).




E’ l’ultima edizione svolta: nel 1971, quando è tutto pronto, un gruppo di autori esclusi deposita una denuncia alla procura della Repubblica contro il comitato organizzatore chiedendo la sospensione del Festival per presunte irregolarità nella selezione dei brani. Il pm Massimo Krogh dispone il sequestro di tutta la documentazione e il questore blocca la kermesse. La Rai smobilita. Gli artisti se ne vanno e buonanotte ai suonatori. (Il solito Bruni, a questo punto non sorprenderà, raduna invece la famiglia sul terrazzo di casa e stappa lo spumante per festeggiare la fine della manifestazione).

C’è una coda musicale a tutta questa storia, come una specie di post scriptum: qualcuno un paio d’anni dopo si rifece coraggio e riprovò. Non lo chiamarono Festival, ma Le Nuove Canzoni di Napoli. Il teatro era lo stesso, il Mediterraneo, e nel comitato promotore figuravano il comune, la provincia, l’Azienda del turismo. La direzione artistica fu affidata a una vecchia conoscenza: Aldo Bovio. Per la serata conclusiva, presentata da Nino Taranto e Sylva Koscina, era prevista Gina Lollobrigida come ospite d’onore. Senonché, c’è sempre un senonché, il popolare cantante Mario Abbate, escluso dalla rassegna, occupò per protesta il pullmino della regia Rai spalleggiato da un gruppetto di sostenitori. Pare che minacciasse di avere una bomba, ma quando arrivarono i poliziotti lui mostrò al commissario soltanto un accendino. La trasmissione andò in onda, in tardissima serata, con quaranta minuti di ritardo.




Nell’81 ci fu un nuovo tentativo di resuscitare il Festival e altri ne seguirono, nel vano progetto di soffiare l’anima in un corpo morto. Ormai alla musica napoletana quella gara non serviva più.

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