Il regista e attore mette in scena il Re Lear, ricordando quando recitò nell’allestimento di Giorgio Strehler: “Quando proponevo qualcosa per il mio personaggio, Strehler commentava: “Ahi, ahi! Vedo sul tuo capo la nuvola nera della regia…”. Lo spettacolo all’Argentina di Roma dal 26 novembre al 22 dicembre
Giunto all’età forse più giusta per interpretarlo, Gabriele Lavia è Re Lear. Sapeva che si sarebbe “calato nell’abisso” di una delle più ardue sfide shakespeariane e non l’avrebbe ingaggiata se non ce lo avessero spinto. Le energie riversate, quarantadue anni dopo avere già lavorato all’opera con Giorgio Strehler, gli suscitano riflessioni sul teatro e sulla vita nell’imminenza del debutto a Roma. Lavia sarà protagonista e regista al Teatro Argentina dal 26 novembre al 22 dicembre, con un cast di quattordici interpreti e un’attinenza rigorosa al testo per rivivere la tragedia del potere e delle perdite, dei conflitti tra padri, figlie e figli agitati da passioni e miserie individuali.
Cosa ricorda del Re Lear di Strehler?
Facevo Edgar, il figlio legittimo del conte di Gloucester. Quando proponevo qualcosa per il mio personaggio, Strehler commentava: “Ahi, ahi! Vedo sul tuo capo la nuvola nera della regia…”. Aveva ragione oppure era destino, perché non avrei pensato più di allestire Re Lear considerando quella un’edizione irripetibile. Invece l’anno scorso, proprio mentre varcavo l’ingresso artisti del Piccolo Teatro, mi arrivò una telefonata di Francesco Siciliano, presidente del Teatro di Roma.
Che glielo propose.
Gli dissi se era consapevole di dove ci saremmo infilati… Re Lear è l’abisso, e anche la vetta irraggiungibile, della drammaturgia shakespeariana.
Certe cose ritornano nel tempo al di là della nostra volontà?
Me lo domando sempre. Come dice Amleto: “C’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero. Se è ora, non è a venire; se non è a venire, sarà ora; se non è ora, pure sarà a venire. Essere pronti è tutto”. Non c’è un momento della vita che non possa essere enunciato con Shakespeare.
“Essere pronti” anche a Re Lear.
Che torna sul finire della mia storia in teatro o del finire in generale, a ottantadue anni suonati.
C’è sempre un poi.
Sono un materialista dialettico e mi è difficile questa disposizione dello spirito, ma non chiudo le porte e penso che in un aldilà coi buoni e i cattivi non finirei tra i secondi. Solo i brutti spettacoli sono state le mie cattiverie, perché ho avuto la fortuna di lavorare molto e non ho avuto tempo di commettere altre marachelle.
Chi fa teatro cosa ricorda dei suoi momenti in palcoscenico?
Non ricordo uno spettacolo in particolare, penso al teatro in maniera vaga e misteriosa perché solo così puoi farlo ancora. Quando a Strehler riusciva una scena felice diceva: “E poi, mah…”. Era il dubbio che l’entusiasmo fosse un momento passeggero e l’indomani lo avrebbe modificato.
A lui piacevano le sue regie?
Sosteneva di non andare mai a teatro, ma non era vero. Almeno tre o quattro miei spettacoli venne a vederli. Ovviamente senza dirmelo, ma poi capivo che gli erano piaciuti.
Come si trova nel doppio ruolo di regista e attore?
Succede da così tanto tempo che non so più cosa vuol dire essere chiamato da qualcuno per una parte. È capitato di rado e penso che sia molto riposante. Alla fine delle prove sono così stanco da non stare in piedi, perché faccio e rifaccio la scaletta tra il palcoscenico e la platea.
Lei va a teatro?
Sì ma da regista, cioè da malato, perché le cose a cui sono attento sono quelle che gli altri non guardano: i proiettori, il montaggio della scena, le quinte, se un attore guarda in platea… I dettagli tecnici insomma, ricordando però che il teatro va preso anche con distacco perché il pubblico medio raramente è davvero attento a queste cose. A teatro rubo, attingo pure dalle cose brutte quando tra gli orrori di una messa in scena sbuca un attimo meraviglioso. Vado anche a Londra con mia moglie per vedere cosa combinano gli altri, ma lì prendo poco. Il loro livello di recitazione consente di non affidarsi troppo alla regia.
Lei è un fedelissimo ai testi.
Mi attengo al metodo dei miei maestri, al rigore di Orazio Costa quando frequentavo l’Accademia. Aderisco a quel vangelo etico e estetico anche se qualche nuovo regista lo riterrà antiquato. Per me la fiaba di Cappuccetto Rosso deve svolgersi com’è scritta, con l’arrivo del cacciatore che taglia la pancia al lupo, anche se ogni attore sarà un cacciatore diverso. Anzi, ogni sera che lo stesso attore ripete la parte esegue lo spartito interiore in un’altra maniera. Come nella musica: ogni Nona di Beethoven è la stessa ma è diversa.
È un perfezionista?
C’è la ricerca della perfezione, ma siccome non puoi mai ottenerla rimani infelice. Fare teatro non dà felicità, è un incubo, e il più grande è che finito il lavoro cominciano le repliche. Un attore spesso pensa che la centesima sia migliore perché ha arricchito il personaggio, ma è un obiettivo personale mentre il teatro è un’arte collettiva, in cui gli accrescimenti vanno fatti nella stessa direzione. Perciò il regista è importante, altrimenti si rischia l’orrore.
L’impermanenza del teatro è un’angoscia?
È la medesima con cui procede la vita e permette al teatro di non morire mai. Cambia nella “stessità”.
A differenza del cinema.
Non ci dovremmo meravigliare per la sua cattiva salute, perché è una tecnica, che viene superata da altre tecniche. Resta l’essenza delle storie.
Qual è lo spettatore ideale?
Chi a differenza mia s’abbandona alla storia, guarda gli attori e si commuove. Lo spettatore incorrotto.
Lei non ci riesce mai?
Con i film western. Sono un maniaco, ho visto anche i più brutti, ma non i western all’italiana di cui salvo la trilogia di Sergio Leone.
Se non avesse fatto teatro?
Volevo disegnare cartoni animati come un mio amico che se ne andò in America, ma ebbi paura di partire.