C’entra la sensibilità di Francesco, diversa da quella dei predecessori europei. Ma anche il rifiuto del principio che l’Olocausto giustifichi ogni azione israeliana
Quando si arriva a dire “ho tanti amici ebrei”, come ha fatto nell’intervista al Corriere della Sera l’arcivescovo Bruno Forte, navigato teologo di rango chiamato a dare una contestualizzazione alla frase papale sul genocidio possibile a Gaza, significa che c’è un problema. Classica excusatio non petita, un po’ come quando si fa la battutaccia fuori dal tempo su una coppia omosessuale vista baciarsi al bar e subito dopo, davanti al montare dell’indignazione, si assicura di non essere omofobi e questo perché “ho tanti amici gay”. Il Papa, è vero, non ha mai detto che a Gaza è in corso un genocidio. O meglio, non l’ha scritto sul volume pronto per le librerie in vista del Giubileo (La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore, Piemme): s’è limitato ad auspicare che si debba indagare per capire se effettivamente ne esistono i presupposti. Un anno fa, però, furono i palestinesi ricevuti in udienza riservata a dire – appena usciti dalle sacre stanze – che Francesco quella parola l’aveva proprio pronunciata, tra le smentite repentine della comunicazione vaticana. Le parole sono importanti e mai come in questo caso pesanti. Perché giuridicamente la definizione di “genocidio” è tra le più complesse da acclarare, presuppone conseguenze definitive dalle quali non si può tornare indietro. Genocidio significa volere l’annientamento, meditato e poi praticato, di un popolo. Nulla di meno. Come l’olocausto degli anni Quaranta in Europa. Accusare ora Israele di perpetrare la stessa cosa sui palestinesi di Gaza non è, insomma, accusare il governo di Benjamin Netanyahu di eccedere nella risposta armata: è molto di più. E ha implicazioni politiche e storiche che giocoforza si ripercuotono sulle relazioni interreligiose. Di più: c’è di mezzo anche la teologia, e non è poco.
Anni fa, San Paolo editore pubblicò il volume Ebrei e cristiani, che altro non era che la corrispondenza fra Joseph Ratzinger e il rabbino capo di Vienna, Arie Folger. Tutto nacque da un articolo di Communio del 2017 scritto dallo stesso Papa emerito, “Grazia e chiamata senza pentimento”, riflessione nata come contributo per l’approfondimento teologico del dialogo con gli ebrei. Disse al Foglio il curatore di quell’opera, Elio Guerriero: “La chiarezza fa precedere il dialogo, l’accordo a ogni costo genera solo confusione”. Ed è su questo punto che i due interlocutori svilupparono il loro confronto. Proseguiva Guerriero: “Come argomentano di comune accordo Papa Benedetto e il rabbino Folger le religioni diventano sempre meno rilevanti nella società occidentale e sono sempre meno tollerate da un laicismo sempre più aggressivo. Facendo progetti e prendendo iniziative comuni esse possono svolgere un ruolo non contro il mondo, ma per una visione più armonica, più aperta alla convivenza civile”. Certo, a livello teologico le distanze erano e sono profonde, tant’è che è lo stesso Ratzinger a scrivere: “A umana previsione questo dialogo non porterà mai all’unità delle due interpretazioni all’interno della storia. Questa unità è riservata a Dio alla fine della storia”.
E’ anche un discorso di sensibilità: Benedetto XVI era un tedesco nato negli anni Venti e, come il predecessore polacco Giovanni Paolo II, avvertiva pressante l’esigenza di superare secoli di antisemitismo, di fare ammenda per le persecuzioni culminate con l’olocausto nei campi di sterminio. Francesco, no. E’ nato dall’altra parte del mondo, ha una sensibilità diversa, non sente su di sé il peso implicito dell’espiazione, del dovere superare macigni di storia. Ha una visione più globale, anche da un punto di vista storico: ci sono gli ebrei, certo, ma ci sono anche i musulmani. C’è Israele, ma c’è anche la Palestina, con i suoi diritti e le sue rivendicazioni. Al Concilio che scrisse e votò la Nostra Aetate Wojtyla era vescovo, Ratzinger perito. Francesco non era neppure prete. Giovanni Paolo II voleva a tutti i costi andare in sinagoga a Roma, a rimarcare che le due religioni erano unite più di quanto la storia avesse fatto pensare: “La religione ebraica non ci è estrinseca, ma in un certo qual modo è intrinseca alla nostra religione. Abbiamo con essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione… Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, i nostri fratelli maggiori”.
Il giorno di Natale di un anno fa, poco più di due mesi dopo il pogrom del 7 ottobre, il Papa stava pronunciando il tradizionale messaggio Urbi et orbi, alla città e al mondo. Qualcuno, esperto di relazioni ebraico-cristiane, si fermò di colpo: “Nella Scrittura, al Principe della pace si oppone ‘il principe di questo mondo’ che, seminando morte, agisce contro il Signore, ‘amante della vita’. Lo vediamo in azione a Betlemme quando, dopo la nascita del Salvatore, avviene la strage degli innocenti. Quante stragi di innocenti nel mondo: nel grembo materno, nelle rotte dei disperati in cerca di speranza, nelle vite di tanti bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra. Sono i piccoli Gesù di oggi, questi bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra, dalle guerre”. Sentendo l’accenno ai “piccoli Gesù di oggi”, un brivido ben percepibile attraversò la schiena di chi ascoltava e comprendeva cosa tali affermazioni avrebbero potuto scatenare. La speranza è che quel passaggio, brevissimo, non lasciasse traccia. Perché facilmente, nel clima infuocato di quei mesi, con l’ambasciata israeliana che pubblicamente biasimava le prese di posizione vaticane e dei patriarchi orientali, una voce avrebbe potuto dedurre che ecco, torna l’antica accusa di deicidio: i missili israeliani ammazzano “i piccoli Gesù”, cioè i palestinesi di Gaza le cui foto ogni giorno apparivano sui giornali di tutto il mondo.
Mai come ora le relazioni fra il mondo cattolico e quello ebraico, dopo i faticosi sviluppi degli ultimi decenni, sono in uno stato critico. C’è una incomunicabilità di fondo che peraltro s’inserisce in un quadro dove il dialogo interreligioso è spesso agitato più come feticcio che come occasione concreta di sviluppo e di pace. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, fu il primo a dirlo un anno fa, dopo che il Papa ammonì Israele dal reagire troppo duramente al massacro di Hamas. Francesco ricordò che “la guerra è sempre una sconfitta” e Di Segni rispose che “le guerre sono sempre un’offesa alla dignità umana, comportano morte e distruzione, e certamente vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti a un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente”. Ancora, “la preghiera è un’arma anche se non spara, e la sua moralità dipende dal suo contenuto. E’ bello vedere moltitudini che si raccolgono a chiedere la pace, che guardano ai termini dei conflitti, che vogliono la fine delle sofferenze, ma bisogna valutare se guardare oltre non significa appiattire le differenze e fare tutti uguali”. Pochi mesi dopo, intervenendo alla Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, il rabbino capo fu ancora più duro: “C’è un problema di teologia regredita e di incomprensione sostanziale. Sono stati fatti molti passi indietro nel dialogo ed è necessario riprendere il filo del discorso”. Si è registrato “un miscuglio di dichiarazioni politiche e religiose che ci hanno reso perplessi e offesi. C’è la preghiera per la pace, ma non avete il monopolio della pace. La pace la vogliamo tutti, ma dipende da quale. La pace non può prescindere dalla sconfitta di Hamas perché chi fa il male deve essere sconfitto, come accade con i nazisti nel 1945. E non si può accettare l’idea che la guerra sia di per sé una sconfitta per tutti”.
Pochi giorni fa, sul Corriere della Sera, sempre Di Segni osservò che rispetto al rapporto fra mondo cattolico e mondo ebraico “c’è un oggettivo raffreddamento, una regressione. Vengono rispolverati vecchi archetipi sugli ebrei vendicativi. Poi altri tuffi nel passato che andrebbero evitati per non rimettere in discussione decenni di complesso dialogo. Un lavoro che rischia di regredire in poco tempo”. In ballo c’è la parte più importante della Nostra Aetate, la dichiarazione conciliare in cui s’afferma che “la Chiesa, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque”. Ha scritto lo storico Massimo Faggioli sulla Croix International: “Dopo la Nostra Aetate e soprattutto dopo Giovanni Paolo II, era un presupposto comune che combattere l’antisemitismo fosse un requisito di livello base per i cattolici. Purtroppo, questo non è più sempre vero. Non è solo la teologia dei nuovi influencer cattolici, ma un più ampio processo di de-teologizzazione e deculturazione che rivela l’emarginazione del Vaticano II e dei suoi documenti chiave sulle relazioni interreligiose, tra cui Nostra Aetate e Dignitatis humanae sulla libertà religiosa”.
Adam Gregerman, docente di Studi ebraici presso il dipartimento di Teologia e Studi religiosi alla Saint Joseph University di Philadelphia, ha scritto sul Tablet Magazine che anche la lettera scritta dal Pontefice ai cattolici del medio oriente in occasione del primo anniversario degli attacchi del 7 ottobre presenta problemi non di poco conto: c’è infatti una – “per molti inspiegabile” – citazione di Giovanni per denunciare i mali della guerra. Il versetto “incriminato” – “lo spirito del male che fomenta la guerra, perché è ‘omicida fin da principio’, ‘menzognero e padre della menzogna’” – scrive Gregerman, “è stato usato per giustificare l’ostilità della Chiesa verso gli ebrei. Ma un’immagine così terribile è completamente fuori luogo in un documento cattolico moderno. Purtroppo, il Papa ha comunque scelto di usare questo famigerato versetto in un momento in cui l’antisemitismo globale ha raggiunto livelli alti. Una tale dichiarazione minaccia il lavoro intellettuale dei suoi predecessori cattolici che risale agli anni Sessanta”. Gregerman dice di più, sostenendo che “il pensiero di Francesco sembra limitato da presupposti obsoleti sulle parti in un conflitto. Parla come se stesse commentando un conflitto tra due stati nazionali in guerra. Indirizza i suoi commenti a entrambe le parti”, quando una delle due è uno stato riconosciuto e l’altra è un’organizzazione terroristica: “In oltre un anno, non ha mai menzionato Hamas, anche se le menzioni di Israele sono onnipresenti. Questo squilibrio è significativo, non solo perché è inquietante non riuscire a nominare uno degli aggressori di un conflitto (specialmente uno ampiamente considerato un gruppo terroristico), ma perché la sua ambiguità studiata preclude un impegno critico con la natura di Hamas e di altri avversari”.
Il problema è più profondo, secondo l’accademico: “La visione della guerra portata avanti dal Papa non è costruttiva. Desiderando allontanare la teologia cattolica dalla giusta teoria della guerra giusta e verso una nascente cosiddetta teoria della pace giusta, non offre una guida pratica o morale nell’attuale conflitto fra Israele e Hamas. Invece, ne travisa la natura e presenta semplicisticamente situazioni altamente complesse e sfumate al servizio delle sue opinioni a priori sulla guerra in generale. Anche se sarebbe irragionevole aspettarsi che diventi un partigiano nel conflitto o che approfondisca la natura dell’opposizione che Israele sta affrontando, non è riuscito a considerare la necessità di un’autodifesa militare o a valutare se l’odio antisemita nei confronti degli ebrei – una sua preoccupazione esplicita – sia dietro l’aggressione e la retorica contro Israele”.
A novembre di un anno fa, oltre quattrocento fra rabbini e studiosi impegnati nel dialogo ebraico-cristiano firmarono una lettera aperta a Francesco. A spiegarne il senso fu, sull’Osservatore Romano, Karma Ben Johanan, docente all’Università ebraica di Gerusalemme: “L’iniziativa di scrivere una lettera a Papa Francesco nasce dallo shock, dal dolore, dalla sofferenza che ha assalito noi, rabbini, studiosi e leader religiosi impegnati nel dialogo ebraico-cristiano, all’indomani della terribile strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre. Questi sentimenti sono stati accompagnati da un profondo senso di solitudine, che è alimentato dall’ondata di antisemitismo che si è diffusa in tutto il mondo e che non credevamo potesse ancora verificarsi nei nostri tempi. Siamo convinti che questa solitudine può essere sostenuta dal conforto della Chiesa cattolica, al cui confronto abbiamo lavorato per molti anni”. “Chiediamo ai nostri fratelli cattolici – proseguiva la docente – di stendere una mano in solidarietà alle comunità ebraiche di tutto il mondo nello spirito di una genuina fratellanza con il popolo dell’Alleanza”. Il Papa rispose: “Il cammino che la Chiesa ha percorso con voi, antico popolo dell’alleanza, rifiuta ogni forma di antigiudaismo e antisemitismo, condannando inequivocabilmente le manifestazioni di odio verso gli ebrei e l’ebraismo come peccato contro Dio. Insieme a voi, noi cattolici siamo molto preoccupati per il terribile aumento degli attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo. Avevamo sperato che ‘mai più’ sarebbe stato un ritornello sentito dalle nuove generazioni, ma ora vediamo che il cammino da percorrere richiede una collaborazione sempre più stretta per sradicare questi fenomeni”.
A margine di un evento romano, il cardinale Pietro Parolin ha detto che il Papa non è antisemita (bui sono i tempi se il segretario di stato della Santa Sede deve dirlo) e che è giusto chiedere di indagare su quanto sta accadendo a Gaza. Quel che nella Chiesa si pensa ma non si dice, è che l’Israele di Netanyahu usi la tragedia dell’olocausto come punto finale per troncare ogni discorso. E’ un po’ la tesi del defunto storico ebreo Tony Judt – che si beccò l’accusa di antisemitismo da Leon Wiesieltier – secondo cui “l’identificazione di Israele con Auschwitz (e dei suoi nemici con il nazismo) non è solo oscena, ma anche controproducente”. Dato tale quadro, anche solo l’idea abbozzata di indagare sul “genocidio” rende complicato immaginare un rasserenamento lungo il sentiero del dialogo interreligioso.