Oggi le sale non somigliano più a quelle novecentesche dalle vaste platee: sono delle salette da multisala, in cui ti ritrovi seduto fra tre o dieci spettatori, quasi tutti rigorosamente anziani, come se si fosse lì a rimuginare ricordi o a commemorare dei cari estinti
Qualche giorno fa, chiacchierando con due vecchi amici, mi è stato rimproverato di non andare al cinema abbastanza e di non scrivere ogni tanto qualche articolo sui film visti. In effetti, mi sono reso conto che mentre loro avevano visto più o meno tutti i film di cui ora si parla, io non ero entrato in un cinema da molti mesi, forse da un anno. Il fatto è che da tempo per me il cinema non è più il cinema. Non è più quella cosa che è stata forse fino agli anni Novanta, quando si vedevano film diventati ormai quasi dei classici, come America oggi, Schindler’s List, Forrest Gump, Smoke, Fargo, Tutto su mia madre, Eyes Wide Shut. Quando Kubrick morì, arrivato ai settant’anni, mi sembrò che la storia del cinema fosse finita. L’arte che nel corso del Novecento era stata chiamata “la decima musa”, l’ultima e la più tecnicamente giovane delle arti, cominciava allora come altre arti a sapere più di passato che di futuro. Oggi i cinema non somigliano più ai cinema novecenteschi dalle vaste platee: sono delle salette da multisala, in cui ti ritrovi seduto fra tre o dieci spettatori, quasi tutti rigorosamente anziani, come se si fosse lì a rimuginare ricordi o a commemorare dei cari estinti. Malinconia, soprattutto. Al primo posto malinconia. Anche mio figlio, che con mia meraviglia ha appena compiuto cinquant’anni, non mi pare un abituale frequentatore di cinema. Era giovane quando vide Full Metal Jacket e i suoi film preferiti, rivisti più volte in tv, restano Frankenstein Junior, Barry Lyndon, The Blues Brothers e parecchio Totò.
Dunque se non vado più al cinema è perché niente è come prima e in più raramente mi è successo di vedere nuovi film che meritassero di stare seduti due ore a fissare uno schermo. Con mia vergogna arrivo a vedere, in parte o a pezzi, per puro e pigro passatempo serale, qualche orribile, esagitato e violento film o telefilm americano che ridicolmente glorifica i soliti, acrobatici vendicatori spietati Harrison Ford o Clint Eastwood. Ma torno al rimprovero di non vedere i nuovi film e provo ad andare al cinema. Scelgo per mia comodità la piccola multisala Greenwich a Testaccio, dove danno ben tre dei film visti dai miei rimproveranti amici: Vermiglio, Berlinguer e Parthenope.
Ho cominciato con Vermiglio, che anche secondo la cassiera doveva essere il più bello. Purtroppo, invece, la delusione è arrivata presto. Dopo non più di un quarto d’ora mi sono chiesto: è un film, questo? E così ho cominciato ad aspettare che qualcosa sullo schermo accadesse fra montagne innevate e mutismi dei vari personaggi, sia quelli di sfondo che i protagonisti. L’idea di cinema e il presupposto o la poetica di questo film è un’idea tanto rigoristica che snobisticamente punitiva. Lo spettatore è costretto a non capire che cosa si racconta, perché la fotografia, anche notevole in quanto fotografia, manca di nessi narrativi, comunicativi e (perché no?) esplicativi. Si pretende di seguire una ascetica, severa rappresentazione realistica della vita povera e contadina in un minuscolo paese di montagna negli anni della Grande guerra. I due personaggi più rilevanti sono un maestro di scuola elementare che, appartato, ascolta Chopin e poi insegna a leggere e scrivere a vecchi e bambini, compresi alcuni dei suoi moltissimi figli. Una di questi è una ragazza che si innamora di un disertore siciliano, lo sposa e così va incontro all’infelicità. Ma nel corso di tutto il film i personaggi non si sentono pronunciare che pochissime frasi. Metodo e tono sono quelli di una specie di “sublime basso”, il sublime di un’umanità che vive tacendo. Lo scarso parlato è inoltre dialettale, cosa che rende necessari i sottotitoli, come per dire: questo è un mondo così remoto da voi e noi che mai potrete capirlo. In realtà, quella presunta realtà è rappresentata in modo poco credibile e le immagini che restano più nella memoria sono le mani di una donna occupata a mungere e accarezzare una mucca.
Secondo film: Berlinguer. Qui sono piuttosto prevenuto per ragioni politiche, dato che non condivido la mitizzazione del segretario di un partito che voleva continuare a definirsi “comunista” senza esserlo. E che in più credeva (questo il genio o l’ingenuità di Berlinguer) in tempi di “guerra fredda” di poter governare insieme a una Democrazia Cristiana più aperta ai neofascisti del Msi che ai comunisti del Pci.
Insomma: Berlinguer era onesto, ma non così intellettualmente e politicamente onesto da capire che un mondo diviso in due fra Usa e Urss non poteva accettare quel “compromesso storico” fra comunisti e democristiani che avrebbe dovuto eliminare o sospendere la Guerra fredda nella sola Italia. Ma giudizi politici a parte, il film su Berlinguer manca ancora una volta di nessi narrativi ed esplicativi. Sono passati decenni, ben quattro, dalla sua morte, e il film sembra essere concepito per un pubblico di settantenni che ricordino gli anni del terrorismo e sappiano chi erano Ingrao e Terracini, nonché Andreotti e Moro, le due facce contrapposte della Democrazia Cristiana di allora. Si fa il possibile per umanizzare il personaggio Berlinguer (Germano è sempre ottimo) mostrandolo anche nella sua vita quotidiana e famigliare. Ma i suoi figli restano presenze sfuggenti, ombre che esistono solo per aver pronunciato una certa frase. Neppure i loro visi sono focalizzati.
Il terzo film, Parthenope, mi è sembrato il peggiore perché sperpera e rende nauseanti i troppi mezzi usati, le stilizzazioni ossessive, l’estetismo esasperato, le varie astuzie che finiscono per annoiare invece che colpire e sorprendere. Insomma, un’orgia di quelle che vengono offerte come foto bellissime, memorabili, ipnotiche. Ma fotografia e scenografie non bastano a fare un film. L’autore accumula, ammucchia le sue trovate. Invece di far recitare gli attori (per lo più mediocri), li fa mettere ripetutamente in posa. In sostanza, il regista stesso è in posa, nella posa di superesteta provocante. Qua e là un personaggio o l’altro se ne esce a vuoto con una bella frase da ricordare: ma non la si ricorda, perché dietro le frasi non ci sono situazioni teatrali e narrative. In mancanza di vera inventiva, il regista a ogni inquadratura s’inventa qualche colpaccio a sorpresa. Erotismi e sesso naturalmente abbondano, si sprecano. La protagonista, di nome Parthenope, è e non è bella. Lo è a volte come oggetto fotografabile, ma non lo è in quanto donna e personaggio.
Ecco, sono andato diligentemente al cinema e mi sono per lo più annoiato. Una sola osservazione generale e conclusiva. Ai nostri registi manca la capacità di costruire trame e storie, di mettere in scena personaggi e situazioni, conflitti sociali e morali evidenti e con esiti significativi. Oltre che essere un’arte tecnicamente determinata, il cinema è nato come erede e successore sia del teatro che del romanzo. La debolezza della cultura italiana nell’arte del teatro e del romanzo si sente oggi più che mai. In una certa misura il nostro cinema, dal neorealismo alla commedia all’italiana, è stato salvo eccezioni (Visconti, Germi, Scola…) soprattutto teatro. Quanto al romanzo, non sono bastati Svevo, Lampedusa, Moravia, Morante e Sciascia a insegnare narrativa ai nostri registi cinematografici.