I racconti cimiteriali, ghiotta occasione per farsi strada nel vasto corpus di Maupassant

Il grande autore francese ritorna in libreria con una breve ma significativa raccolta di novelle, unite dall’ambientazione e dal rapporto con chi non c’è più. Uno sguardo sulla morte privo di misticismo, dominato da un’attenta critica verso la morale borghese

Fedeli della buona letteratura e amanti del brivido, rallegratevi. E’ da poco uscita per i tipi di Ares con il titolo di “Racconti in nero” una breve e significativa antologia di Nostro Signore del Racconto Guy de Maupassant. Sei storie che Silvia Stucchi – ottima traduttrice e curatrice – ha sapientemente scelto dal vasto corpus delle novelle del grande autore francese, con un trait d’union: l’ambientazione cimiteriale, e il rapporto con chi non c’è più.



Talento scovato dal poeta Louis-Hyacinthe Bouilhet e poi coltivato nientemeno che da Flaubert (che era amico di sua mamma), Maupassant fu autore prolifico, avendo dato alle stampe nella sua non lunghissima vita (1850-1893) sei romanzi (più uno rimasto incompiuto, L’Angélus) e circa trecento novelle. Sono soprattutto queste ultime ad avergli assicurato fama imperitura. Leggere i racconti di Maupassant è un’esperienza straordinaria e intrigante, ma si potrebbe non sapere da dove cominciare; per tacere del fatto che questo autore così affascinante pare via via escluso dalle più recenti antologie scolastiche del Bel Paese, talvolta per fare spazio a signore e signori che, diciamo così, T. S. Eliot non avrebbe inserito nella lista, quando si chiedeva What is a classic? Anche per questo, il nuovo libro curato da Stucchi è un’occasione ghiotta.



Le sei storie, che risentono in vario modo del grande modello letterario di Edgar Allan Poe, ci conducono in cimiteri parigini, stazioni termali e montagne innevate; tra amanti impazziti, servi infedeli e morti… che ritornano. Maupassant, voce singolare nel più ampio panorama del Naturalismo, era razionalista e scettico (tanto che per questo, in gioventù, fu espulso dal seminario). Pertanto, non guarda alla morte con chissà quale misticismo o escatologia. Piuttosto, da attento osservatore (e critico) della morale borghese qual era, pizzica i vizi umani, sfruttando il potente espediente letterario del cimitero, che dalla Elegy di Thomas Gray e il carme Dei sepolcri di Foscolo innerva tanta bella letteratura, fino ai versi di Edgar Lee Masters e alla chitarra di De André.

C’è spazio per l’infedeltà (è il caso della misteriosa fanciulla del racconto Le tombali) o la cupidigia (il maggiordomo de Il tic), fino al caso eclatante del racconto La morta, in cui i defunti di notte riemergono dalle proprie tombe, per cancellare il buonismo con cui le epigrafi sulle proprie lapidi li descrivono, rivelando quale sia stata la propria vera natura (“Qui riposa Jacques Olivant, morto all’età di cinquantun anni. Accelerò con la sua durezza di modi la morte di suo padre, dal quale voleva ereditare, torturò sua moglie, tormentò i suoi figli, ingannò i suoi vicini, rubò quando poté, e morì miserabile”). Menzione d’onore per l’ultimo racconto della silloge, La locanda, che ispirò a Stephen King The shining e, mediante lui, il capolavoro di Stanley Kubrick: una vicenda da brividi in mezzo ai ghiacciai alpini, che vi terrà col fiato sospeso fino all’ultima pagina. Grazie Ares, grazie Stucchi.

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