Il libro dello scrittore israeliano è insieme un romanzo e un memoriale, praticamente l’unico racconto davvero epico scritto in tempi recenti: ci fa capire lo spirito di un popolo e la sua abissale complessità
In questi giorni bisogna affrettarsi a prendere in mano “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz. La sua lettura richiede tempo e animo, ma è necessario e urgente. Forse in nessun altro momento della storia recente questo testo del grande scrittore israeliano, vessillo della sinistra laburista d’antan, valorosa ed eroica, tutt’altro che rinunciataria e arrendevole, ci parla con forza epocale. Ci fa capire lo spirito di un popolo, la sua abissale complessità. E’ difficile parlare di un tale libro che è insieme un romanzo e un memoriale in poche righe, se non dicendo quanto sia grandioso e potente, di come sia praticamente l’unico racconto davvero epico, di cui abbia notizia, scritto in tempi ragionevolmente recenti. E come ogni vera epica è anche intimo, delicato, familiare. Farne un più articolato discorso richiederebbe molto spazio e molto tempo. Mi limito dunque a parlare delle prime decine di pagine di questo testo monumentale, pagine che una volta lette renderanno impossibile metterlo via.
L’autore racconta della sua infanzia nella Gerusalemme dell’immediato Dopoguerra. Una Gerusalemme sotto il cui sguardo, attraverso i millenni, un conquistatore dopo l’altro si è “dissolto come il vapore dell’alba lungo i colli. Gerusalemme è una vecchia ninfomane che spreme sino allo spasimo, prima di scrollarsi via di dosso con uno sbadiglio un amante dopo l’altro”.
Il racconto di Oz è degno dei grandi scrittori continuamente citati e amati dai personaggi che descrive: come gli ebrei russi tolstojani che lui bambino vedeva nel suo quartiere “tutti vegetariani fanatici ansiosi di riformare il mondo ed elargire morali”. Uomini e donne dall’esistenza povera e dalla ricchissima cultura, arrivati lì dagli shtetl dell’Europa orientale, quell’Europa che per loro rappresentava ancora una terra promessa proibita a cui appartenevano in modo assoluto per eredità culturale ma da cui si sentivano perennemente ricacciati: “Nel mondo, tutti i muri erano tappezzati di scritte ingiuriose ‘giudeo, vattene in Palestina’, così siamo venuti in Palestina. E adesso il mondo ci urla contro, ‘giudeo, vattene via dalla Palestina’”. Il piccolo Amos cresce tra i libri del padre e della madre, in una casa angusta, umida e malinconica, con il padre follemente bibliofilo che a volte, non avendo soldi a sufficienza per fare una buona spesa, va ad impegnare qualche libro per poi tornarne immancabilmente con nuovi imperdibili testi che non aveva potuto rinunciare a comprare. I vicini di casa nel quartiere sono modesti impiegati ma tutti in grado di parlare di Marx, di ragionare di Spinoza, di cercare una sintesi tra Kant e Hegel, pur vivendo in ristrettezze economiche. “Ebrei diasporici”, che sembravano usciti da un libro di Cechov in cui a volte serpeggiava un’arrendevolezza ammantata di pacifismo.
Al lato opposto della descrizione di questa comunità da cui il giovane Amos era circondato a Gerusalemme, vi sono i pionieri del mondo nuovo “in Galilea, nella ragione di Sharon, nelle vallate. Ragazzi robusti dal cuore caldo, ma introversi e meditabondi. Ragazze prosperose, spontanee, equilibrate, come se già sapessero tutto e capissero tutto […] capaci di saltare in groppa a un cavallo selvaggio ma anche a un grosso trattore cingolato, di parlare l’arabo, a conoscenza di tutte le grotte e i uadi, le pistole e le granate, e tuttavia amanti dei libri di filosofia”. Già così si comprende l’articolazione e l’ordito di sentimenti, storie ed esistenze che stanno al cuore della stessa fondazione dello stato ebraico. La prosa di Oz mescola in sé tutte le articolazioni di questa caleidoscopica composizione, di questa vertiginosa unione di diversità che pure ha dato vita a un’eccezionale unitarietà. A un’eccezione che è lo stato stesso d’Israele che forse solo tramite un grande racconto, più che attraverso l’analisi politica e filosofica, si può iniziare a comprendere. “Laggiù si stava costruendo un paese e riformando il mondo, laggiù stava fiorendo una società nuova, laggiù imprimevano il loro sigillo sul paesaggio e sulla storia, laggiù si aravano campi e si piantavano vigneti […] si prendeva la squallida polvere d’uomo, e si creava un popolo combattente”.