Un mistero di psicologica politica, come se non si volesse infierire sull’ex premier nel momento di debolezza. “L’elettorato in fuga dal M5s non è assorbibile dal Pd”, dice Bersani. “Noi puntiamo a moderati e astenuti, non auguro a Conte di fallire, anzi”, dice Nardella
Strane cose accadono sotto al cielo politico. Si sa infatti che, in politica, quando si perde si perde: traversata nel deserto, cambio di leadership, calvario di autocritica collettiva. E che quando si vince si vince: euforia, incarichi, allentamento delle tensioni interne. E invece. E invece succede che il Pd, primo partito dell’opposizione, dopo i tempi grami (vittoria delle destre nel 2022, alleati riottosi – vedi Giuseppe Conte – e persino implosione del Terzo polo), si svegli il 18 novembre con due assi in tasca: Umbria ed Emilia-Romagna, e il partito che vola al 30 per cento in un caso e al 40 nell’altro. Ci sarebbe quindi la possibilità, diciamo anche la tentazione, di sbandierare finalmente la contentezza, tanto più che l’altro, l’alleato riottoso, da oggi è alle prese nientemeno che con la costituente del M5s, oltre che con percentuali da discesa libera.
Ma se la segretaria dem Elly Schlein, la sera dopo la vittoria, un po’ di soddisfazione l’ha mostrata, dal giorno dopo, non si sa se per decisione dei vertici o per impulso proprio, nel corpaccione del Pd si è fatta strada una strana sindrome o riflesso o complesso o senso di colpa del vincitore, come se non si volesse infierire sull’ex premier Conte, confinato stavolta nell’angolo — vedi mai che il medesimo possa insolentirsi e decidere di andare da solo (cosa che potrebbe fare in ogni caso e indipendentemente dall’atteggiamento del Pd). Fatto sta che, mistero della psicologia politica, il 21 novembre l’ex segretario dem Pierluigi Bersani —l’uomo cui è toccato in sorte, nel 2013, ai tempi dello tsunami tour e del relativo ingresso in massa dei grillini in Parlamento, lo strazio dello streaming, quello con Roberta Lombardi e Vito Crimi e con lo stesso Bersani trattato con sufficienza dai due neofiti — lui, si diceva, Bersani, proprio lui, si è reso protagonista dell’inspiegabile: rientrato nel Pd dopo l’avventura di Articolo 1, e dopo essersi speso senza sosta per aiutare la ditta, Bersani ha offerto l’altra guancia al M5s, ai limiti della minimizzazione della vittoria di qualche giorno fa. Intervistato dal Corriere della Sera, infatti, ha in tutti i modi rassicurato il M5s rispetto ai timori dell’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, convinta che il Pd possa fagocitare il Movimento.
Macché, dice Bersani: tutti i partiti possono crescere; l’elettorato in fuga da Conte “non è assorbibile dal Pd e piuttosto “va verso l’astensione”; dal Movimento può invece “arrivare una formazione di sinistra di nuovo conio” e il Conte che si è rifiutato di pronunciarsi tra Donald Trump e Kamala Harris “lo ha fatto perché si sentiva ancora addosso i panni del premier”. E se qualcuno, il 21 novembre, ha pensato che il verbo di Bersani fosse condiviso quasi solo da Bersani, il 22, cioè ieri, leggendo il Messaggero, quel qualcuno si è dovuto ricredere, ché l’ex sindaco di Firenze ed eurodeputato Dario Nardella ha rincarato la dose: il Pd non cannibalizza gli alleati; noi puntiamo a moderati e astenuti; non auguro a Conte di fallire, anzi. E a questo punto ci si chiede: ma Conte, a parti rovesciate, ricambierebbe tutti questi favori non richiesti?