Il regista novantaquattrenne di “Didone e Enea nel giorno di Santa Cecilia”, sommo sacerdote delle riesumazioni sei-settecentesche degli anni Ottanta, è tornato con un trittico di “Eroi erranti” al teatro Alighieri di Ravenna
Perdersi l’ultima baroccheria di Pierluigi Pizzi, uno dei veri venerati maestri in un mondo in cui quasi tutti faticano a superare lo stadio del solito stronzo? Giammai. Pronti, via all’Alighieri di Ravenna, per un trittico di “Eroi erranti” composto dal “Ritorno d’Ulisse in patria”, da “Dido and Aeneas” e dal one man show della star del falsetto Jakub Józef Orlinski. Al sottoscritto è toccato il Purcell, in effetti doppio perché “Dido” viene incastonato dentro “Hail, bright Cecilia”, una cantata per Santa Cecilia che, se non è agli stessi stratosferici livelli di bellezza, poco ci manca. E’ una vecchia trovata di Plp che già nel 1986 la propose nel circuito dei teatri emiliani. Chi scrive è così bacucco da averla pure vista, al Comunale di Modena, e proprio nella serata in cui finì flambé la Fenice: tragedia doppia, insomma. Rimembranze personali a parte, l’idea ha un senso perché “Dido” fu rappresentata per la prima volta in un convitto per giovani gentildonne a Chelsea nel 1689, benché fosse stata probabilmente concepita quattro anni prima per un masque alla corte di Carlo II, la più divertente e porcellona dell’intera storia inglese, poi saltato per la morte del diretto interessato.
Nella versione di Pizzi, ribattezzata “Didone e Enea nel giorno di Santa Cecilia”, siamo in una scuola di musica dove soli e coristi, tutti in nero esistenzialista, celebrano la loro Santa vestita come quella di Raffaello a Bologna, organino prêt-à-porter incluso, inserendo nell’ode l’opera, dopo essersi rivestiti dei relativi pepli. Plp è stato il sommo sacerdote delle riesumazioni sei/settecentesche degli anni Ottanta; oggi è approdato a una sorta di minimalismo barocco che dimostra come un novantaquattrenne di genio sappia intercettare lo Zeitgeist contemporaneo meglio di tanti Ss (soliti stronzi, appunto). E’ un Pizzi senza pizzi e men che meno merletti, che inquadra tutto in bianche architetture sobrissime ed elegantissime, costumi raffinati ma semplici, unico souvenir dei mantelli d’antan quello rosso di Enea, e insomma fa un teatro all’insegna del less is more, ma sempre chic. Spettacolo bellissimo, anche se poi naturalmente alla fine succede poco e non ci sono audaci e rivelatrici riletture drammaturgiche, che peraltro nessuno si aspettava. Se solo finisse quest’estenuante provinciale querelle des anciens et des modernes sulle regie e iniziassimo a classificarle semplicemente in belle e brutte, l’ambiente dell’opera sarebbe meno tossico.
Rivelatrice, e molto, è invece la direzione al cembalo di Ottavio Dantone con la sua eccellente Accademia Bizantina (e il Coro della Cattedrale di Siena intitolato a Guido Chigi Saracini, sorprendente per compattezza, precisione e sfumature: fossero tutti così, i cori delle chiese, torneremmo subito a frequentarle…). Se eseguito male, Purcell può risultare micidiale: qui frizza e teatralizza con continue trouvailles ritmiche e coloristiche che gli danno un passo drammaturgico incalzante anche quando si tratta solo di cantare lodi a Cecilia, “great Patroness of Us and Harmony!”, grande patrona nostra e dell’Armonia. La compagnia è bella, anche da vedere perché nel teatro pizziano i brutti non sono contemplati (ricordo un Orfeo – a Madrid, parmi – dove la barca di Caronte era affollata di bonazze/i più di una fashion week milanese; i brutti erano mandati all’inferno direttamente, senza passare dallo Stige). Arianna Vendittelli fa una Didone sobria ma intensissima, e arrivata a “When I am laid”, lamento che nell’hit parade dei cinque minuti più strazianti della storia del teatro musicale si piazzerebbe molto in alto, i suoi “Remember me!” sono da ricordare davvero. Mauro Borgioni è un Enea piacione e pasticcione, perfetto; fra gli altri, da segnalare i due bassi, Gianluca Margheri e Federico Sacchi, che si esibisce anche un bel numero rap, e Ziga Copi, ufficialmente tenore ma così falsettante da sembrare un controtenore, voce minuscola ma eccellente musicista. Teatro inaspettatamente colmo e giustamente festante.