L’ex attaccante si è ritrovato a guidare l’amato Galles da un giorno all’altro, senza avere mai allenato nemmeno una partita di una prima squadra in vita sua. Sta dimostrando di essere un ottimo ct
Se qualcuno, con l’occhio pigro per l’abbuffata di partite di una sosta nazionali vista come un intralcio da quasi tutti gli appassionati e gli addetti ai lavori, dovesse essersi imbattuto in una partita del Galles, potrebbe essere rimasto piacevolmente sorpreso. Non tanto e non solo per i risultati, come l’altisonante 4-1 rifilato all’Islanda con Liam Cullen sugli scudi o per l’ottimo 0-0 strappato in Turchia, quanto per la figura che si sbracciava in panchina, avvolta in un giaccone nero leggermente più alla moda di ciò che accade abitualmente.
Non è mai stato un tipo normale, Craig Bellamy, e la sua parabola da allenatore non poteva essere da meno. Si è ritrovato a guidare l’amato Galles da un giorno all’altro, senza avere mai allenato nemmeno una partita di una prima squadra in vita sua. Aveva iniziato da un team delle giovanili del Cardiff, club del quale era stato tifoso e calciatore, come volontario, una volta chiusa l’attività da giocatore: lo recitava persino il comunicato del club, parlando di “voluntary basis” dietro l’accordo raggiunto con l’ex stella di Newcastle, Liverpool e Manchester City per consegnargli un gruppo di under 12. Era un attaccante elettrico, Bellamy. Velocissimo, esaltante, sciupone. Sempre intenso, in campo e fuori, capace di creare controversie dal nulla persino nello spogliatoio più placido. Aveva litigato praticamente con ogni allenatore incrociato nel corso della sua vita, e basterebbe fare uno squillo a Roberto Mancini per averne conferma diretta. Aveva persino fatto a mazzate – letteralmente – con John Arne Riise: febbraio 2007, andata degli ottavi di finale di Champions League con il Barcellona dietro l’angolo. Prima una discussione in un ristorante, poi la sorpresa: Riise apre la porta della sua stanza d’albergo e si trova davanti Bellamy, totalmente ubriaco, con una mazza da golf in mano. I primi tentativi verso le gambe vanno a vuoto, uno sul fianco va a segno, Riise cerca di difendersi goffamente con un cuscino. Rafa Benitez, da visionario, aveva deciso di andare controcorrente, senza escludere Bellamy dalla squadra per il match del Camp Nou. Un gol e un assist, ironia della sorte, proprio per Riise, e la rete celebrata mimando il gesto del golfista.
Anche per questo, oggi, fa strano vedere come Bellamy si sia calato dall’altra parte della barricata, dovendo essere lui la guida di un gruppo di ragazzi. Quando si è presentato alla guida del Galles, in preda allo scetticismo generale per la sua inesistente esperienza da tecnico, eccezion fatta per gli anni trascorsi nello staff di Vincent Kompany all’Anderlecht e al Burnley, lo ha fatto con proclami altisonanti: “Voglio dominare ogni aspetto del gioco. Sono qui per vincere, questo è il mio carattere. Ma non è tanto voglia di vincere: è che odio perdere. Non ho mai sentito il bisogno di diventare allenatore di un club, in me non c’era alcuna fiamma. Ho passato una vita sotto le luci della ribalta e sto molto bene senza. Ma il Galles è stato troppo importante per me, la possibilità di guidare la Nazionale del tuo Paese è molto rara. Era un’opportunità che non potevo perdere”. Il suo ruolino fin qui è immacolato: tre vittorie e tre pareggi in sei partite, la volontà di cambiare il modo di giocare del Galles, puntando su un gioco più corale in un’epoca priva di grandi stelle. Fin qui, complice il format della Nations League, ci è riuscito. Eppure sembra che ci sia un’altra cosa a ossessionarlo, più del gioco, del risultato, come ha detto dopo il 4-1 all’Islanda: “Era importante per me mostrare alla gente che non sono pazzo”.