Tamborini lancia l’allarme sulle difficoltà strutturali e cerca un fronte comune per salvaguardare l’occupazione e l’industria. Il peso della sostenibilità e l’impatto di nuovi attori come Shein spingono le due federazioni di settore a riunirsi sotto l’ombrello protettivo di Confindustria
Bisogna dare atto a Sergio Tamborini, presidente di SMI, la federazione del comparto tessile nazionale che ora si appresta a recuperare la denominazione di Confindustria Moda, di aver riconosciuto il dato che molte ricerche presentate nelle ultime settimane occultano sotto parole vacue e troppi imprenditori tendono a sopire, e cioè che la crisi del sistema moda mondiale è strutturale, e che di certo lo è in Italia. “Tre semestri consecutivi di segno negativo sono un segnale evidente del cambiamento in corso”, diceva Tamborini a Milano poche ore fa, presentando il nuovo logo accanto a Giovanna Ceolini, presidente di Confindustria Accessori Moda, seconda branca del sistema ed esplicitando così, se non proprio una nuova armonia, almeno un’unitarietà di intenti fra le maggiori associazioni della moda dopo la frattura dei mesi scorsi.
La netta diminuzione delle vendite mondiali di moda, conseguenza di molti fattori ma il cui peso ricade in buona misura sulla manifattura, lo choc della modalità con la quale, pochi giorni fa, DFS, la divisione retail del gruppo Lvmh, ha annunciato la prossima chiusura del Fondaco dei Tedeschi, senza cercare un’interlocuzione con il Comune di Venezia per i duecentoventisei dipendenti che fra pochi mesi non avranno più un lavoro, impone infatti l’abbandono dei particolarismi, e un fronte comune attorno alle tante tematiche sul tavolo, fra i quali, appunto, i numerosi tavoli di crisi aperti, in particolare nel distretto della pelletteria toscana. “Viviamo un momento di transizione per le abitudini di consumo, determinato anche dalle agende geopolitiche”, ha aggiunto Tamborini. Su questo aspetto pesa inoltre l’impatto della sostenibilità, che sebbene si trovi esplicitato sui bilanci dei brand, in realtà e salvo rare eccezioni è il frutto degli investimenti e degli adeguamenti alle normative europee che gli stessi brand, non producendo direttamente nulla, impongono alle manifatture presso le quali allocano gli ordini e che oggi vedono una diminuzione degli ordini anche a due cifre. Su questa situazione, di per sé già molto preoccupante, incide anche la potenza sempre maggiore di nuovi attori come Shein che, “oggi fattura 40 miliardi e sottrae alla nostra filiera importanti spazi di mercato, in particolare nella generazione Z. Ci saranno aggregazioni e consolidamenti”, ha detto, convalidando quello che è non solo un sentiment generale, ma anche una realtà acclarata: i grandi consulenti strategici non hanno mai ricevuto richieste di collaborazione come in questi mesi, ed è facile previsione che questo “consolidamento” porterà a tagli, riduzioni, cassa integrazione, e questo anche al netto di quel carico da novanta che è la controversia con il governo sul credito d’imposta per ricerca e sviluppo, sul quale tutte le associazioni stanno dando battaglia in punta di diritto. “Quindi, c’è il tema dell’inflazione”, ha sottolineato: “Aumentano i prezzi ma non i pezzi. A pagare il costo della riduzione dei volumi è proprio la manifattura”.
Ancora divise ma unite sotto l’ombrello protettivo di Confindustria, par di capire che il recente attivismo politico di Camera Nazionale della Moda non sia stato troppo gradito, le due federazioni guardano insomma alla riorganizzazione come a una leva, o forse una lente, che costringa il governo Meloni a dar loro la giusta considerazione. Il sistema produttivo formato dalle due federazioni genera infatti un giro d’affari di quasi 100 miliardi euro, e impiega oltre 500mila lavoratori e lavoratrici, interessando più di 50mila imprese. Il tessile italiano è anche il primo esportatore di tessile, moda, accessori in Europa, e il secondo nel mondo dopo la Cina, con un saldo commerciale che nel 2023 ha superato i 26 miliardi di euro. Il timore che la crisi in corso faccia perdere al sistema non solo lavoratori qualificati, ma diminuisca in via definitiva anche il suo appeal presso i giovani è tale che, oltre agli interventi sinergici sul credito di imposta e alla partecipazione al Tavolo della Regione Lombardia per combattere il caporalato, che tutti sperano non si risolva nell’ennesima piattaforma sulla quale inserire dati e certificati, verrà aumentato l’impegno nella formazione dei giovani e la riqualificazione di chi un lavoro nella manifattura l’ha già e ora rischia di vederselo sfuggire dalle preziosissime mani.