Da un incidente all’esenzione dai dazi, il rapporto travagliato fra Cook e Trump

Si riaccende la delicata partita fra Apple e il neo presidente degli Stati Uniti. La minaccia di nuovi dazi ha spinto il colosso tecnologico a diversificare a produzione riducendo l’esposizione verso la Cina. Oggi Cupertino lascia che il tycoon si prenda i meriti dei buoni risultati dei finanziamenti di Biden, nella speranza che basti a schivare multe e cause giudiziarie

“Tim Apple”: così Donald Trump battezzò per errore il ceo di Apple, Tim Cook, nel 2019. Il buffo incidente avvenne nel corso di una conferenza stampa alla quale Cook era presente, in cui si parlava di strategia e investimenti negli Stati Uniti da parte di Apple. In realtà, però, lontano dai microfoni, i due parlarono soprattutto di Cina. E di dazi. Vale la pena ripercorrere la storia recente della prima Amministrazione Trump per provare a prevedere il futuro con la seconda. E anche in questo caso, Apple e Cook sono le chiavi di lettura migliori. Nel 2019, infatti, Apple sembrava destinata a soffrire grosse perdite per via dei dazi contro la Cina voluti da Trump, che dovevano essere del 25 per cento. Secondo quanto dichiarato dallo stesso Trump a Bloomberg Businessweek lo scorso luglio, fu lo stesso Cook a chiedere udienza alla Casa Bianca, mostrando grande stima e rispetto per il presidente, atteggiamento sempre gradito da quest’ultimo – che ancora ne parla cinque anni dopo. Nel corso dell’incontro, secondo la parafrasi trumpiana, Cook fu molto diretto: “Mi disse ‘questo potrebbe davvero ledere i nostri affari. Potrebbe distruggerli, potenzialmente’”. Pochi giorni prima, Trump aveva twittato che “Apple non riceverà un’esenzione dai dazi per le parti di Mac Pro costruiti in Cina. Producetele negli Stati Uniti e non ci saranno dazi!”.

Comunque sia andato l’incontro, Cook se ne uscì con l’esenzione, grazie alla promessa di un investimento da un miliardo di dollari nella produzione negli Stati Uniti – poco importò che Apple avesse deciso di puntare sullo stabilimento di Austin un anno prima. Per celebrare la notizia, Cook regalò a Trump un Mac Pro Made in Usa da seimila dollari. In quell’occasione, non fu solo il carisma di Cook e la facilità con cui Trump può essere lusingato a salvare Apple. Cook spiegò a Trump quanto quei dazi avrebbero leso Apple e quindi facilitato la concorrenza di Samsung, e presentò Apple Watch come un dispositivo medico, riuscendo a evitare i dazi sul prodotto (dopo un’iniziale tassa aggiuntiva del 15 per cento).

Arriviamo così a oggi: anche grazie a Trump, Apple ha diversificato la produzione di iPhone e altri dispositivi, riducendo l’esposizione verso la Cina. Oggi una buona parte di iPhone è prodotta in India e lo stabilimento di Austin continua a produrre Mac Pro. Secondo Bloomberg, poi, un altro stabilimento negli Stati Uniti, in North Carolina, potrebbe entrare in funzione entro il 2029, ovvero prima della fine del secondo (e ultimo, stando alla Costituzione statunitense) mandato di Trump. Ma c’è anche l’Arizona, dove Apple sta costruendo uno stabilimento per la produzione di chip per i suoi dispositivi meno potenti: il progetto è stato in parte reso possibile dai finanziamenti pubblici del Chips and Science Act dell’Amministrazione Biden ma non è un azzardo pensare che Trump sarà più che disposto a prendersene il merito. Per quanto riguarda queste dinamiche politiche, la “mossa Cook” è ormai chiara: lasciarglielo fare e lasciare a Trump il clamore mediatico, nella speranza che sia sufficiente a schivare le tariffe promesse.

Anche perché, questa volta, Cook agirà in un contesto diverso dal 2016-2020. All’epoca i primi incontri fra Big Tech e Trump furono impacciati e tesi: il mondo liberal che incontra il populismo Maga. Oggi, invece, molti nomi grossi della Silicon Valley hanno appoggiato apertamente Trump, e nei giorni prima del voto, tutti – Tim Cook, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos – gli hanno telefonato. La telefonata pre elettorale di Cook è stata particolarmente interessante. Anche in questo caso, sempre secondo Trump, sarebbe stato Cook a chiedere udienza all’allora candidato, per poi lamentarsi delle multe decise dall’Unione europea contro Apple nel corso degli ultimi anni: “Mi ha detto che l’Ue li ha multati per 15 miliardi e poi ne hanno ricevuta un’altra da due miliardi”. Questa volta sarebbe stato Trump a rassicurarlo: “Tim, prima devo venire eletto (…) ma non permetterò loro di approfittare delle nostre aziende”.

Non c’è solo l’Unione europea. Anche il dipartimento di Giustizia americano ha fatto causa ad Apple accusandola di monopolio nel settore degli smartphone. Quanto a Matt Gaetz, il procuratore generale (che sarà a capo proprio del dipartimento), potrebbe cambiare le cose ma finora è sempre stato un accanito critico di Big Tech. E poi c’è il fronte interno all’azienda stessa, il rischio che l’avvicinamento di Cook a Trump provochi una ribellione in Apple. Insomma, è una partita delicata, che però “Tim Apple” ha già giocato una volta, vincendo.

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