Anche questa volta l’escalation è uno spauracchio: Mosca si prepara agli Atacms

Sono mille giorni che il Cremlino scommette sulla prevedibilità delle scelte occidentali. Attendeva la decisione sui missili a lungo raggio, ma quello che ancora non ha capito è che gli ucraini sanno essere imprevedibili

Mille giorni fa, il 24 febbraio del 2022, il capo del Cremlino Vladimir Putin, il suo ex ministro della Difesa Sergei Shoigu, e i suoi generali avevano fatto una scommessa, mai esplicitata, ma deducibile dai resoconti degli esperti, dai racconti dei soldati russi, dalle testimonianze degli ucraini, militari e civili: sappiamo prevedere le azioni degli Stati Uniti, abbiamo visto come si sono ritirati dall’Afghanistan, hanno a capo un presidente anziano e come alleati si trascinano i paesi dell’Unione europea, incapaci di accordarsi su nulla, quindi figurarsi se capaci di prendere decisioni su una guerra. Mille giorni fa, Mosca ha perso la scommessa, accadde il contrario. L’occidente si rivelò straordinariamente unito. Biden, aiutato dai paesi del fianco orientale dell’Ue, fu in grado di creare un senso di urgenza, l’Ucraina non venne né abbandonata né costretta a negoziare la resa davanti all’esercito russo. Il Cremlino aveva fatto anche un’altra scommessa, basata più che altro sui rapporti di intelligence errati, che lo avevano convinto che gli ucraini non soltanto non sarebbero stati in grado di difendersi, ma non ci avrebbero neppure provato. Anche questa scommessa fu persa, i soldati di Kyiv dettero prova di essere capaci di resistere e organizzarsi, i civili dimostrarono che per loro essere russi o ucraini faceva una differenza imponente. Mosca aveva puntato sulla prevedibilità degli occidentali e sulla mollezza degli ucraini. Perse entrambe le scommesse e rimase, per alcuni mesi, stordita e goffa di fronte alla resistenza di Kyiv possibile grazie all’aiuto del presidente americano vecchio e dei suoi alleati disuniti. I due azzardi sbagliati gli costarono un ritiro frettoloso dal nord dell’Ucraina, durante il quale i soldati russi si lasciarono dietro gli orrori dell’invasione: le fosse comuni di Bucha, che furono le prime, nei territori occupati c’è ancora tutto da scoprire. Gli costarono la risposta ridicola alla controffensiva nella regione di Kharkiv, organizzata dall’attuale ministro della Difesa, Oleksandr Syrsky, all’epoca uno dei migliori generali molto apprezzato per il suo fattore imprevedibilità.



Poi Mosca ha deciso di cambiare le sue scommesse. Non tutte. Il Cremlino non scommette più sulla mollezza degli ucraini, che hanno dimostrato di essere pronti a tutto pur di non trovarsi occupati dai russi, di avere generali di talento, soldati esperti e con motivazioni chiare. Mosca continua però a puntare sulla prevedibilità dell’occidente, ed esclusi i primi mesi di guerra, finora non ha più perso la scommessa. Neppure domenica Mosca ha avuto un fremito di sorpresa, quando il New York Times ha rivelato per primo che Joe Biden si era convinto a dare a Kyiv il permesso di usare i missili a lungo raggio americani per colpire obiettivi militari in Russia. Come era già successo con i carri armati Abrams o i tedeschi Leopard, con i caccia F-16, le decisioni sono state prese con tanta lentezza da parte degli alleati dell’Ucraina, che Mosca ha imparato a prepararsi, nella convinzione che, prima o poi, i paesi coinvolti avrebbero sciolto le loro riserve. Così è accaduto anche con gli Atacms che, secondo il sito Axios, potranno essere usati soltanto nell’oblast’ di Kursk, dove in agosto gli ucraini hanno iniziato un’operazione di conquista di territorio e di cattura di prigionieri di guerra, penetrando nel territorio russo. La Russia non era preparata a un’invasione da parte di Kyiv – non sottovaluta più i soldati ucraini, ma crede che siano affetti dallo stesso dramma della prevedibilità dell’occidente, quando l’essere imprevedibili continua a essere uno dei punti di forza di Kyiv. Il Cremlino non ha intenzione di spostare uomini dal fronte ucraino per andare a riconquistare Kursk, così in tre mesi non ha fatto nulla, fino a quando non è riuscito a mettere in piedi un piano di controffensiva coinvolgendo truppe della Corea del nord, il primo paese che accetta di mandare i suoi uomini a combattere al fianco di Mosca. Gli Atacms servono per colpire postazioni, depositi, linee di rifornimento russi in modo da fermare la controffensiva. Sapendo però che prima o poi Biden avrebbe dato il permesso di colpire oltreconfine con le potenti armi americane, Mosca si è preparata e ha iniziato a spostare i possibili obiettivi per limitare i danni. L’annuncio sui missili a lungo raggio è stato anche irrituale: non era mai accaduto che le armi, o la caduta di qualche divieto a usarle, venissero prima annunciati e poi resi effettivi; infatti il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha voluto cercare un effetto sorpresa, dicendo che gli Atacms verranno utilizzati quando il nemico meno se lo aspetta e faranno molto male: “I missili parleranno da soli”. Non ci sono dubbi sulla capacità degli Atacms, sulla determinazione degli ucraini di renderli utili nonostante il tempo che Mosca ha avuto per prepararsi ma, come nota Phillips O’Brien, uno dei più attenti osservatori della guerra, professore di Studi strategici e autore di una newsletter molto dettagliata sull’invasione russa, il rischio è che l’annuncio arrivi con altrettante limitazioni, tanto da generare l’effetto F-16: i caccia tanto attesi non hanno stravolto l’andamento della guerra.



All’annuncio americano, Mosca ha reagito come al solito. Ha accusato l’occidente di voler inasprire il conflitto, ha detto che l’esercito russo è pronto ad andare avanti. Ogni decisione occidentale è seguita da accuse di “escalation”, ma tanto è prevedibile l’occidente, che il Cremlino non è stato colto di sorpresa, neppure dagli Atacms, quindi anche questa volta non tirerà fuori armi nucleari, non scatenerà un conflitto globale, continuerà a bombardare l’Ucraina come fa in modo incessante da mille giorni.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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