Il canto ferito di Chopin

Moriva 175 anni fa il compositore, che a vent’anni lasciò la sua terra natale per non rivederla mai più. Sehnsucht, dicevano i teorici del Romanticismo. La nostalgia per la Polonia e per le melodie popolari della sua gioventù. Il pianoforte era il suo confidente più intimo

La tristezza mi ha preso – perché? Neppure la musica oggi mi consola – è già notte tarda, e non ho voglia di dormire; non so che cosa mi manca”. Queste parole, scritte da Frédéric Chopin in un diario, riflettono la malinconia profonda che appare nella sua musica come elemento costante, quasi una firma che egli pone alle sue opere: ogni nota tracciata nei suoi pentagrammi sembra mettere a tema la nostalgia per qualcosa di lontano, come la terra natale – lasciata a vent’anni e mai più rivista – il cui pensiero, tuttavia, colmerà le sue musiche di memoria e, per così dire, dell’anima stessa del popolo polacco.



Nato nell’ottobre del 1810 nel piccolo centro di Zelazowa Wola, ma ben presto trasferitosi con la famiglia a Varsavia, dove frequenta il liceo, Chopin dall’età di sedici anni abbraccia gli studi musicali come impegno esclusivo sotto la guida del compositore Józef Elsner che, dopo aver mantenuto un giudizio prudente per i primi anni, licenzierà l’allievo definendolo “un genio della musica”. In estate Frédéric si sposta regolarmente in campagna ed è durante questi periodi di vacanza, volti a rafforzare il fisico cagionevole, che la sua sensibilità è immersa in melodie destinate a rimanere ben impresse nella sua memoria. “Durante questi soggiorni – scrive Jaroslaw Iwaszkiewicz – Chopin incontra da vicino la musica popolare che tanto lo affascinava; annota melodie e parole e inconsciamente assorbe quelle danze e quelle note tristi, malinconiche della pianura senza boschi dei dintorni di Szafarnia”. Ne scaturisce un giovane sensibilissimo nei confronti della natura, capace – anni più tardi – di fermarsi incantato a osservare, argentea alla luce della luna, una betulla che sorge davanti alla casa di un amico, scrivendogliene poi il ricordo nitido: “Quella betulla (…) non può uscire dalla mia memoria”.



Uomo di società, ma segnato da un’eredità spirituale propria del popolo, Chopin si rapporta al pianoforte come a un amico e trova in esso, in modo molto distante dalla altisonante produzione orchestrale di altri contemporanei, il più intimo confidente: “Al mio pianoforte racconto ciò che in più d’una occasione avrei detto a te”, scrive all’amico più caro nel 1829. Una sorta di diario personale, nel quale costantemente riemerge quell’insoddisfazione che porta sul pentagramma l’espressione di una intensa nostalgia, di una flagrante mestizia, di quella stimmung ineffabile che delle pagine di Chopin diviene inconfondibile tratto.


Se ne avvidero bene i contemporanei, e pare che un giorno – come racconta Franz Liszt – qualcuno abbia chiesto a Chopin “con qual nome chiamerebbe egli il sentimento straordinario che racchiudeva nelle sue composizioni. (…) Egli rispose che (…), quali che fossero le sue passeggere gaiezze, egli non si liberava tuttavia mai da un sentimento che formava in certo qual modo il terreno del suo cuore, e per il quale egli non trovava espressione se non nella propria lingua, [con la parola] Zal” (termine che Liszt stesso, poche righe dopo, cerca di tradurre con la perifrasi “rimpianto inconsolabile per una irrevocabile perdita”).



Sehnsucht, dicevano i teorici del Romanticismo. Ma era nostalgia non riconducibile solo all’affetto per la patria lontana, dove pure egli – questa, tra le ultime volontà – avrebbe fatto riportare il proprio cuore; nostalgia, piuttosto, per un altrove ben più profondo, come qualcosa che rimane lontano eppure intimamente presente. Al punto da divenire fattore essenziale di una poetica.

I “Notturni” sono l’occasione di un’osservazione di sé che solo il buio delle tenebre può favorire. Vertici espressivi d’inedito fascino



Si ascoltino allora i primi Notturni, per trovare – già nelle primissime note del Notturno op. 9 n. 1 – l’umbratile espressione di questa nostalgia. Oppure – nel Notturno op. 9 n. 2 – una misteriosa mescolanza di sentimenti, là dove il dolore si confonde con una struggente dolcezza. Il carattere crepuscolare di queste pagine è per Chopin occasione di un’osservazione di sé che solo il buio delle tenebre – sottraendo allo sguardo ciò che è lontano e facendo ripiegare il soggetto su sé stesso – può favorire: ecco allora l’autore indagare, come al tenue bagliore di un focolare, nel silenzio dell’oscurità, ciò che è vicino, anzi interiore, raggiungendo vertici espressivi d’inedito fascino.


Ma è nelle mazurche che egli offre alla sua Polonia la memoria più intensa e grata: pagine attraverso cui Chopin – come scrive Gastone Belotti – “inserì nel proprio stile il ‘dialetto musicale polacco’ dandogli l’universalità propria delle grandi scritture musicali”. Ne scrive anche Iwaszkiewicz, affermando che “Chopin ha racchiuso nelle mazurche tutto ciò che aveva tratto dalla terra natale (…). Ha messo in evidenza la poesia del popolo portandola al livello dell’arte”. Si ha qui la prova di quale impronta avessero lasciato nel suo animo quei soggiorni in campagna, nei quali il giovane prendeva parte alle feste popolari assimilando canti e danze che avrebbero poi investito la sua produzione matura, ponendovi un contenuto che proprio attraverso la lontananza si fa ancora più intenso: “Chopin – sintetizza Belotti – incarnava la Polonia, metteva in musica la Polonia”. Egli – è stato scritto – “ha raccolto le lacrime del popolo polacco, sparse per i campi”. Lacrime che, instillate nel suo cuore durante la giovinezza, sarebbero rimaste come memoria imponente nella maturità: “La sera – racconterà un giorno Chopin – me ne sono rimasto a casa a canticchiare le melodie delle rive della Vistola”.

Sulle rive della Vistola. Liszt afferma che Chopin fu “tra i primi musicisti che abbiano saputo identificare in sé stessi il senso poetico di una nazione”



Ecco così Liszt affermare che Chopin fu “tra i primi musicisti che abbiano saputo identificare in sé stessi il senso poetico di una nazione”. E’ l’opera del genio, che si fa portavoce dell’anima di un intero popolo, ponendone la sensibilità nelle sue composizioni e dando in tal modo a ciò che avrebbe carattere locale una dimensione di universalità: “Egli – scrisse ancora Liszt – adunò in fasci luminosi i sentimenti confusamente provati da tutti nella sua patria, frammentariamente disseminati nei cuori, vagamente intravisti da alcuni”.



Chopin, negli ultimi anni, si lamenterà: “Ricordo appena come cantano, nel mio paese!”. Commenta Iwaszkiewicz: “Questa confessione è importantissima, perché quel ricordo era la base della sua esistenza”. Analogamente Belotti scriverà che “il segreto della profonda suggestività dell’arte chopiniana sta in questo, che egli riflette in sé l’anima della nazione polacca, anima che non lo abbandonò mai”. Un’anima che, posta dentro di lui in modo incancellabile, ebbe un ruolo determinante non solo nella scrittura, ma anche nell’esecuzione: più d’una testimonianza riferisce del particolare stile, fatto di indescrivibili effetti che l’autore produceva eseguendo le sue opere – fattori non scritti e certo riconducibili all’espressività musicale contadina – dandovi un quid di intimamente, inconfondibilmente polacco.



Era forse quella “regola d’irregolarità”, che rendeva la melodia ondeggiante e che l’autore stesso, nei manoscritti giovanili, aveva indicato con la dicitura “tempo rubato”, per raccomandare all’esecutore quell’oscillamento o – come la definì Liszt – “quella ‘morbidezza’ di cui era difficile cogliere il segreto quando non si aveva spesso ascoltato suonare lui in persona”. Tra i testimoni oculari, Ignaz Moscheles raccontò che Chopin suonava come “un cantante che, poco curandosi dell’accompagnamento, segua per intero il suo sentimento”, mentre Hector Berlioz dichiarò che “non vi è che Chopin in persona che sappia eseguire la sua musica e darle quell’aspetto originale, quell’imprevisto che è uno dei suoi incanti principali; la sua esecuzione è screziata da mille sfumature”. Ma l’immagine più poetica ci proviene da Liszt, che spiegava agli allievi: “Guardate questi alberi, il vento scherza con le foglie, desta la vita in esse, ma l’albero resta lo stesso: questo è il rubato chopiniano”.



Dopo una permanenza a Vienna di diversi mesi, venne il trasferimento a Parigi. Fu una decisione tormentata, come documentano alcune righe scritte a Vienna, alla vigilia di Natale del 1830: “Tutto solo a mezzanotte sono andato alla chiesa di Santo Stefano. Al mio arrivo non c’era ancora nessuno. (…) Mi sono messo nell’angolo più buio, ai piedi di un pilastro gotico. (…) Regnava il silenzio. (…) Più che mai ho sentito la mia solitudine. Ma che fare per non sentire questa solitudine? Partire?”.



A Parigi trova enorme successo sia in concerti pubblici sia, soprattutto, nelle esecuzioni private, e lavora sulle nuove composizioni. L’incontro con la scrittrice francese George Sand (dopo l’addio all’amata Maria Wodzinska, a cui è riconducibile il bellissimo Valzer op. 69 n. 1 del 1835) apre l’ultima fase della sua biografia. Nel novembre del 1838 c’è la partenza per Mallorca – meta ritenuta adeguata alle fragili condizioni fisiche di Chopin – dove i due trascorrono alcuni mesi, trovandovi però un clima freddo e piovoso. In queste settimane difficili Chopin, nella tediosa attesa di un pianoforte adeguato che arriverà solo in prossimità della ripartenza, lavora ai famosissimi Preludi op. 28: qui si trovano straordinarie pagine come il numero 2 (“nel quale Chopin supera la sua epoca di intere decine d’anni”, scrive Józef Chomiński), o il numero 15 (denominato “La goccia d’acqua”), che trova nella medesima nota ribattuta lungo tutto il brano l’espressione forse più commovente di quel “pensiero dominante” (“Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente”, aveva scritto Leopardi pochi anni prima) che fu la malinconia di Chopin.



In febbraio inizia un penoso viaggio di ritorno, con soste a Barcellona e Marsiglia, e dopo un breve soggiorno a Genova ecco l’arrivo nella residenza estiva della Sand, a Nohant. E’ qui – quasi trecento chilometri a sud di Parigi – che Chopin trascorrerà le estati successive, e in questa “bellissima campagna” egli, finalmente in un clima di tranquillità, potrà dedicarsi pienamente alle sue opere.

George Sand scrive del “lavorìo più straziante di cui io sia mai stata testimone. (…) Si chiudeva nella sua stanza anche per giorni”



Nel 1830 aveva scritto a un amico: “Mio carissimo, trovo un qualche sollievo alla mia insopportabile malinconia appena ricevo una tua lettera. (…) Io stesso non so che cosa mi manca”. E’ l’insoddisfazione che egli pone come nucleo centrale della sua arte. Varrà ricordare, in proposito, quanto spesso i manoscritti di Chopin siano segnati da correzioni, cancellature, riscritture. Mai soddisfatto del tutto, egli continuava a modificare le sue opere talora anche dopo la pubblicazione, come se ciò che egli intendeva dire non fosse ancora stato espresso compiutamente, come se ciò a cui tendeva non fosse ancora stato raggiunto. Impressiona, riascoltando oggi le sue opere, pensare che esse sono l’esito dell’estenuante labor limae efficacemente descritto da George Sand: “La sua creazione era spontanea, miracolosa. La trovava senza cercarla, senza prevederla. Arrivava al suo pianoforte d’improvviso, completa, sublime, o risuonava nella sua mente durante una passeggiata e lui si affrettava per risentirla sul pianoforte. Ma, proprio allora, iniziava il lavorìo più straziante di cui io sia mai stata testimone. Era costituito da una serie di sforzi, indecisioni, impazienze che avevano l’obiettivo di catturare di nuovo alcuni dettagli del tema che aveva sentito (…) e il suo rammarico per non riuscire a ritrovarlo ‘pulito’, come diceva, riusciva a gettarlo in una sorta di disperazione. Si chiudeva nella sua stanza anche per giorni, a piangere, girando a vuoto, spezzando le sue matite, ripetendo e cambiando singole battute centinaia di volte, scrivendole e cancellandole con frequenza identica, e cominciando daccapo il giorno dopo (…). Era capace di trascorrere anche sei settimane su una pagina, finendo con lo scriverla esattamente come l’aveva tracciata la prima volta”.



Il 16 febbraio 1848 diede il suo ultimo concerto a Parigi e tutti gli amici vennero a dargli il loro addio. Chopin, in quell’occasione, concluse la sua Barcarola – forse la pagina da lui preferita – eseguendo gli accordi finali sottovoce, in pianissimo, benché sullo spartito si trovi al contrario scritto fortissimo: è solo nel presente che l’avvenimento dell’arte si realizza. E il pianoforte, suo strumento d’elezione, era per lui il luogo di un’indagine senza fine, capace di condurlo sulla soglia di un orizzonte mai del tutto descrivibile: “Qualcuno ha detto che Liszt nel pianoforte cercava l’orchestra; – scrisse Iwaszkiewicz – Chopin nel pianoforte cercava… il pianoforte”. Ma aggiungeva Astolphe de Custine: “Non è un pianoforte. E’ l’anima”.

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