Giulio Ferroni: “La via dell’umanesimo salva la mente e la natura”

Intervista all’accademico romano: “Bisogna scongiurare il devastante effetto antropologico di mutamenti che non tengono conto della fisicità. Non sarà un problema per gli scienziati ma lo è per l’uomo della strada, per i giovani con l’illusione che un avatar sostituisca la materialità del mondo, che invece resisterà sempre al virtuale”

Non si può dir male di Garibaldi e dei librai, neppure quando ficcano i volumi di Giulio Ferroni nell’hortus absconditus degli scaffali di critica letteraria. Eppure, sia che viaggi nei luoghi dell’Italia di Dante sia che tratti di umanesimo, il professore non parla agli specialisti ma a chiunque voglia interrogare il proprio tempo bussando al passato.

Umanesimo è parola talmente mitizzata da risultare vicina e distante, pronunciata fino all’abuso o quasi impronunciabile senza scusarsi (magari con l’apposizione dell’aggettivo digital). Ambiente è altra parola abusata o abusabilissima. La tecnologia sembra divaricare i due vocaboli, ma Ferroni li associa seguendo il loro corso dagli antichi greci all’Intelligenza artificiale per dimostrare come procedano di pari passo. “Natura vicina e lontana”, uscito per La nave di Teseo, è il frutto delle sue passeggiate tra i classici della letteratura (da Esiodo a Zanzotto) e i boschi tuscolani dove l’accademico romano, che vive a Monte Porzio Catone, ha amato divagarsi.

Mentre il deprecato Dan Brown anticipava al volgo l’Intelligenza artificiale con il romanzo “Origin”, gli scrittori italiani a cosa s’applicavano?

In maggioranza ai cosiddetti noir, con qualche nuovo commissario o personaggio storico trasformato in detective sperando nell’immediatezza del successo. Eppure, se guardiamo alla nostra tradizione letteraria troviamo sorprendenti anticipazioni. Basta riaprire le Operette Morali di Leopardi: “Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi” immagina un’epoca in cui “oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita”.

Più che profetico.

Avvertiva nel 1824 che la tecnologia senza umanesimo procura disastri. Lo sviluppo tecnologico è necessario purché non sia totalizzante. Il rischio di una dittatura digitale è fortissimo e la frase che Elon Musk ha postato su X in occasione della vittoria di Trump, “You are the media now”, riassume l’illusione che ciascuno sia padrone del mondo mentre è per nulla vero. Mi sembrano calzanti questi versi di Montale: “Il polipo che insinua/ tentacoli d’inchiostro tra gli scogli/ può servirsi di te./ Tu gli appartieni e tu non lo sai./ Sei lui, ti credi te”. Bisogna sviluppare la consapevolezza che la propria vita viene affidata a chi gestisce i nostri dati, altrimenti si cade in una cieca subalternità. Bisogna scongiurare il devastante effetto antropologico di mutamenti che non tengono conto della fisicità. Non sarà un problema per gli scienziati ma lo è per l’uomo della strada, per i giovani con l’illusione che un avatar sostituisca la materialità del mondo, che invece resisterà sempre al virtuale. I miliardari non conseguiranno l’immortalità. Neanche su Marte.

È un invito a dialogare di più con l’ambiente?

L’umanesimo lo ha sempre fatto e la letteratura si è interrogata sul nostro essere dentro lo spazio. È una sensazione che ho avvertito fortissima quando ho visitato tutti i luoghi citati nella Divina Commedia. L’uomo medievale era proiettato nell’aldilà, ma era presente pienamente nella fisicità. L’oltretomba dantesco è fatto di materia e lo stesso umanesimo cristiano, per paradosso, guarda alla prospettiva dei corpi nella resurrezione finale. Il XIV Canto del Paradiso ne è l’esempio straordinario. Ora mi sembra che i corpi rischino una dimensione di plastica; che la bellezza definita da Stendhal “la promesse du bonheur” si renda inafferrabile perché surrogata da emblemi artificiali di consumo. Come le influencer.

Qualche antidoto analogico?

Con l’automazione si risparmia fatica ma l’analogico ci riporta alla resistenza del reale contro l’illusione della scorrevolezza. Perciò amo i quaderni e prendo appunti, anche se saranno trasformati in un testo digitale. Spero che i ragazzi facciano ancora a mano le operazioni aritmetiche più semplici.

Il riavvicinamento alla natura non alimenta un’illusione opposta?

Un umanista non scade nel naturismo, nel vegetalismo o nell’animalismo. Sa che grazie ai progressi tecnici la nostra relazione con l’ambiente è diventata meno rischiosa. Occorre un equilibrio quasi contadino, fatto di stretto rapporto con la natura ma percependo pure la sua alterità e le minacce su cui intervenire. Chi ha letto Lucrezio o le Georgiche coltiva il senso della contraddizione, che scarseggia in questi tempi urlati.

Perché si urla?

Perché è finita l’epoca delle grandi speranze, del sol dell’avvenire. C’è uno scontro fra poteri, che nel sovraccarico della comunicazione lottano per farsi sentire di più. Per produrre effetto sul pubblico bisogna calcare la dose e questo conta più del contenuto. Nei talk show non si ragiona: uno parla e un altro viene inquadrato mentre mima la propria disapprovazione.

L’umanista come si difende?

Sa ironizzare sulla vita, è cosciente dei limiti nel suo rapporto con il mondo ma se passeggia in un bosco dove hanno sversato i rifiuti s’addolora, come accade a me. Il rapporto con l’ambiente deve partire dalla cura dei luoghi prossimi. Le cose piccole riflettono le grandi. Chi riempie un bosco d’immondizia non va nemmeno a votare.

È pessimista?

Ho speranza nei giovani ma sono cosciente, per dirla con il mio amico Antonio Tabucchi, che “si sta facendo sempre più tardi”. Lo sviluppo dell’economia è inarrestabile ma è insensato reputarlo illimitato e c’è una sovrappopolazione di cui nessuno parla più. In Italia temiamo di diventare troppo pochi ed essere fagocitati da chi fa più figli, ma l’ansia di un singolo Paese conta poco su scala globale. Gestire l’esistenza in modo più umano è l’impegno per non essere schiacciati.

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