Il metodo Trump con Kim Jong Un ha fallito

La retorica del presidente eletto fa sempre riferimento ai suoi “grandi successi” diplomatici. Ma l’idea dell’uomo potente che da solo ferma i dittatori ha un precedente non proprio positivo

Durante il discorso di accettazione della candidatura del Partito repubblicano alle elezioni, il 19 luglio scorso, il presidente eletto Donald Trump aveva parlato, a modo suo, di politica estera e del metodo che avrebbe usato nel caso in cui avesse vinto – cosa che poi effettivamente è successa. Trump aveva detto, riferendosi al dittatore nordcoreano Kim Jong Un: “Credo che gli manchi, se volete sapere la verità”. Durante tutta la sua campagna elettorale, Trump ha ripetuto lo stesso schema dialettico: io so come trattare con i dittatori, durante il mio primo mandato Putin non ha invaso nessuno, Xi Jinping è feroce ma anche molto intelligente, lui mi teme. Ogni volta che ne ha l’occasione, Trump parla del “rapporto speciale” instaurato con il dittatore nordcoreano Kim Jong Un, ma omette di dire che l’azzardo compiuto nel 2018 col primo vertice fra America e Corea del nord è oggi considerato da tutti gli esperti un pericoloso fallimento.

La Corea del nord di Kim Jong Un è diventata una minaccia diretta alla sicurezza europea da almeno un mese e mezzo, da quando cioè ha iniziato a mandare uomini, oltre che armamenti, a sostegno della guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. L’allarme sulla questione nordcoreana è tornato nelle cronache politiche e diplomatiche, ma da almeno quattro anni erano percepibili segnali dell’involuzione del regime di Kim. La pandemia e la chiusura dei confini non hanno fatto che accelerare un processo iniziato con la legittimazione del regime di Pyongyang consegnato nelle mani di Kim Jong Un proprio da Trump, quando con “atteggiamento da Capitan America”, come si diceva allora, aveva voluto incontrare personalmente il dittatore, rendendo possibile il primo incontro fra un presidente americano in carica con un leader nordcoreano della dinastia Kim. Il movimento trumpiano usa spesso l’esempio di Kim Jong Un per parlare del metodo Trump nella politica estera, ma omette sempre di menzionare il fatto che fu un totale fallimento.



Dopo il biennio 2017-2018 di massima tensione, durante il quale Trump minacciò “fuoco e fiamme” sulla Corea del nord, improvvisamente il presidente americano si mise in testa di voler fare quello che nessuno aveva mai fatto: e per una ragione. Venne organizzato il primo summit a Singapore, e poi Trump e Kim Jong Un si incontrarono altre due volte: a febbraio 2019 a Hanoi, in Vietnam, e poi quattro mesi dopo sul confine fra Corea del nord e Corea del sud – quando Trump fece un passo (un salto) in territorio nordcoreano. All’epoca le immagini delle bandiere americane e nordcoreane per la prima volta vicine avevano fatto rabbrividire diversi osservatori, ma c’era anche un tenue ottimismo: forse Trump, con le sue folli promesse di investimenti, di capitalismo selvaggio e di passaggi sull’Air Force One, avrebbe potuto sbloccare una situazione appiattita da tempo sulla politica della cosiddetta “pazienza strategica” – cioè l’attesa di un collasso autonomo del regime. Ma che fosse solo illusione fu confermato già a febbraio del 2018 a Hanoi, quando i colloqui più concreti sul delicato tema della denuclearizzazione fecero finire il vertice anzitempo.


Fra gli errori di Trump ci fu quello di non aver mai considerato l’esistenza di un sistema ben più complesso di equilibri, e di un dittatore ben più razionale rispetto a quello che continua a descrivere come un uomo “che ama le bombe nucleari e non fa altro che produrne”. Per esempio, sei anni fa Trump non avrebbe mai potuto incontrare Kim se non fosse stato per la presidenza sudcoreana, che all’epoca era guidata da Moon Jae-in, uno dei più famosi teorici del dialogo con Pyongyang. E anche il mondo era diverso: la Russia e la Cina avevano manifestato una certa insofferenza nei confronti dell’aggressività nordcoreana, anche al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, approvando sanzioni con il mondo occidentale allarmato dai tre test nucleari avvenuti fra il 2016 e il 2017.



L’anno successivo però, Trump fece un regalo gigantesco alla leadership nordcoreana: le diede la legittimità che per decenni avevano cercato Kim Il Sung, il fondatore della patria, e suo figlio Kim Jong Il. Quello che fino ad allora era considerato un leader troppo giovane e troppo inesperto, oltre che “imprevedibile”, era riuscito a ottenere il riconoscimento come regime con cui l’America è costretta a negoziare direttamente e capace di far paura. Da quando ha preso il potere nel 2011, Kim Jong Un ha fatto tutto quello che il padre, Kim Jong Il, non era riuscito a fare: ha aumentato esponenzialmente il suo arsenale missilistico e nucleare, ha costruito un sistema offensivo che sfrutta le nuove tecnologie (hacker, droni), ha fatto saltare tutti i colloqui con la Corea del sud e si è dotato di uno scudo di deterrenza che ora fornisce anche all’estero, alla Russia. Trump non ammetterà mai di aver fallito nel suo approccio personalistico con Kim Jong Un, ma è opinione comune, soprattutto in Corea del sud, che il suo metodo non abbia fatto altro che peggiorare la situazione, rendendo Pyongyang più forte e aggressiva, e pericolosa.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

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