Se non emergono contrappesi istituzionali e politici adeguati, la battaglia civile che si prepara sulla scia delle nomine trumpiane dovrà avere per oggetto la natura della democrazia. Molto pericoloso
Le nomine di Trump alla giustizia, al Pentagono e all’intelligence (Matt Gaetz, Pete Hegseth, Tulsi Gabbard) sono la ghigliottina che si abbatte sui criteri di competenza, esperienza, autorevolezza, equilibrio e cultura istituzionale. Si dirà che il wokismo politicamente corretto ha trasformato questi criteri in uno stanco bla bla che sa di oligarchia e non di democrazia. Ma fatto è che una rivolta sociale e politica contro le élite tradizionali di entrambi i vecchi partiti, sostenuta dalle masse e dal corpo elettorale, guidata da un istrione che si ritiene al di sopra delle regole, implica la pena di morte per decapitazione di ciò che il sistema costituzionale ha per riverito e accettato, quei criteri in primo luogo come garanzia di un funzionamento dello stato al servizio del bene comune. Gaetz dovrebbe fare il Guardasigilli e il suo primo atto sarebbe di chiudere un’indagine che lo riguarda per poi dedicarsi a smantellare le attività di giustizia di cui il suo mandatario, Trump, si sente vittima, e perfino il benevolo Wall Street Journal dice che la faccenda finirà male.
Hegseth è un giovane veterano e un telegenico anchor della Fox considerato per le sue opinioni e le sue campagne un potenziale bastonatore dell’establishment militare, uno strumento sicuro per fare pulizia nell’esercito che tanti dispiaceri ha dato all’immagine del neoeletto presidente americano, giudicandolo infine un fascista e un alleato naturale dei nemici dell’America. E va ricordato che fu l’esercito a respingere le campagne demagogiche fatte in nome del maccartismo, che ebbe dalla sua molte più ragioni di quante non gliene si riconoscano, ma entrò in aspra collisione con la democrazia americana. Gabbard è una prediletta dell’intelligence russa e dell’opinione pubblica putiniana. Altre nomine sono meno squilibrate, ma il segno della trasformazione di un’elezione presidenziale in una presa del potere con spiccati caratteri di vendetta autoritaria sul “nemico interno” è dato da queste tre.
A considerare possibile ciò che si desidera (wishful thinking), l’elezione a scrutinio segreto di John Thune a capo della maggioranza repubblicana in Senato può sembrare un ostacolo al pieno dispiegamento di questa prova di forza presidenziale. Il candidato del movimento Maga era Rick Scott, un esecutore senza complessi del trumpismo, un altro fedelissimo, mentre il profilo di Thune fa sperare in un residuo di autonomia politica nel sistema decisionale (il Senato deve ratificare o respingere le nomine). Ma il problema è che le barricate della competenza, dell’autorevolezza, dell’equilibrio e insomma del curriculum repubblicano sono considerate parte della palude che il nuovo potere è autorizzato dal suo successo elettorale totale a prosciugare. La differenza tra il primo e il secondo Trump è semplice. Il primo era una sorpresa per gli altri e per sé stesso. Il secondo è l’uomo del 6 gennaio, il condannato in tribunale, l’aspro combattente contro un sistema istituzionale giudicato corrotto e da smantellare che ha ricevuto il mandato per farlo mettendosi a capo di una rivolta legittimata dal voto del collegio elettorale e da quello popolare, e reso incandescente dal dominio sull’intero Congresso e da una maggioranza conservatrice nella Corte suprema. Anche per la libertà di stampa si annunciano tempi duri.
Il primo Trump si limitò a provocazioni verbali e a un boicottaggio minore, sebbene inaudito nella democrazia americana. Il secondo minaccia di intervenire con forza su conglomerate mediatiche in fase di ristrutturazione, gravate da situazioni di bilancio deficitarie, impegnate in merger che possono salvarle ma hanno bisogno di uno spazio autorizzativo e legale che Trump è in grado di condizionare. La rivendicazione dei criteri di competenza rischia di sembrare una risposta debole e procedurale, metodologica, di fronte a una serie di misure rivoluzionarie contro il nemico del nuovo potere e delle sue pretese autoritarie sancite dal voto. Se la presidenza si muoverà sulla scia delle indicazioni date con le nomine provocatorie di questi giorni, senza che emergano contrappesi istituzionali e politici adeguati, la battaglia civile dovrà impegnarsi su uno scontro di visione e di sistema che ha per oggetto la natura della democrazia, il che è estremamente pericoloso.