I rapporti con il governo e i sindacati (più pragmatismo e meno emozioni). I problemi della transizione (ma indietro non si torna). La linea Tavares e il futuro di Stellantis. Chiacchierata con Daniela Poggio
Abbandonare la logica del rancore, trovare un alfabeto comune, aiutare la transizione sostenendo la domanda e con un piano industriale per il settore, non calando dall’alto gli obiettivi produttivi. Sono questi i messaggi affidati a Daniela Poggio, vicepresidente per la comunicazione e i rapporti istituzionali di Stellantis Italia, una posizione creata ex novo nel giugno scorso, una volta compreso che anche la guerra dell’auto è troppo complicata per non affrontarla direttamente nei paesi strategici. Stellantis è diventata la bestia nera del governo, di gran parte della stampa, dei sindacati (anche della Cgil che aveva avuto un atteggiamento più morbido), dell’opposizione con diverse sfumature, mentre Carlo Calenda attacca a testa bassa. Colpa di una crisi che ha investito l’intera industria dell’auto, certo, ma i vertici del gruppo non hanno fatto molto per farsi comprendere, meno che meno amare. “Il rapporto con la politica è importante e noi rispettiamo le leggi, quelle europee e quelle dei singoli paesi nei quali operiamo. Tuttavia, occorre un metodo di lavoro proficuo per tutti in una fase molto delicata e difficile della grande transizione, con un approccio pragmatico e meno emotivo”, spiega Daniela Poggio.
Il compito non è facile anche se la manager non è nuova in questo mestiere, anzi ha una lunga carriera in gruppi multinazionali come Vodafone, Goodyear, l’industria farmaceutica dove l’innovazione ha un ruolo fondamentale così come il rapporto con la mano pubblica e la politica. “Mi è sempre piaciuto lavorare in aziende che hanno un vasto orizzonte – spiega – Ed è entusiasmante vedere come si forma e cresce una grande impresa. Siamo un gruppo giovane con radici profonde in tre paesi, l’Italia, la Francia e gli Stati Uniti che noi chiamiamo mercati domestici”.
Giovane? Fiat, Peugeot, Citroën e Chrysler sono tutte centenarie. Più che la General Motors alla quale per molti versi potrebbe assomigliare, Stellantis sembra un club di vecchie glorie. E’ quello che molti pensano, ma secondo Poggio è proprio questo l’errore originario che a sua volta fa commettere molti altri errori. Quando la Gm nacque ai primi del Novecento, Buick, Chevrolet, Cadillac e un’altra ventina di società assemblate da William Durant, erano ancora nella culla. Un arcipelago decentrato e sconnesso, un patchwork di marchi che Alfred Sloan vent’anni dopo ha trasformato nel più grande produttore mondiale. E’ questo che vuol fare Carlo Tavares? In realtà, commettiamo un errore se guardiamo all’industria di un tempo, mentre è in corso una tumultuosa trasformazione. “Noi siamo oggi un gruppo con le spalle larghe proiettato nel futuro della mobilità e capace di competere su tutti i mercati a livello globale”, insiste Daniela Poggio. Per questo Stellantis non crede sia una buona idea che l’Unione europea cambi la sua deadline per la fine del motore endotermico: il 2035 deve restare altrimenti l’intero cammino tracciato da Bruxelles s’interrompe. E a quel punto davvero l’industria europea dell’auto chiuderà i battenti sopraffatta da quella cinese.
La scelta indicata dalla Ue è stata rispettata dal gruppo e seguita dal suo management. Il piano c’è, è quello approvato nel 2022 (si chiama non a caso Dare Forward 2030, il coraggio di guardare avanti) e presentato anche in Italia al governo, ai sindacati, al Parlamento dallo stesso Tavares nella movimentata audizione dello scorso 11 ottobre (“una lezioncina astratta” secondo l’implacabile Calenda). E il crollo delle vendite, e la caduta in Borsa, davvero era tutto normale, tutto previsto? Era previsto che il 2024 e il 2025 sarebbero stati i due anni più difficili della grande transizione verso le nuove piattaforme e i nuovi modelli. Un trou d’air come dicono i francesi? Qualcosa di più, naturalmente, però la marcia continua con lo stesso passo e nella stessa direzione. In fondo Stellantis ha anticipato le difficoltà nelle quali si trovano oggi gli altri grandi produttori a cominciare dai primi due, Volkswagen e Toyota.
In questo “vuoto d’aria” quale sarà il posto dell’Italia che storicamente è stato uno dei maggiori paesi produttori? La storia pesa, così come le culture industriali, tre culture forti come quella italiana, francese, americana che debbono amalgamarsi, trovare una sintesi e una identità. “Nessuno toglie qualcosa a qualcun altro, si sta creando invece una realtà nuova”, insiste la manager. La fusione arriva con il Covid-19, per prepararla sono stati messi al lavoro decine e decine di gruppi davvero transnazionali. La genesi ha dovuto affrontare tre variabili da far tremare i polsi: la pandemia, inattesa, la nuova legislazione europea, l’irrompere della Cina nell’auto elettrica. Il 2021, quando nasce Stellantis, è stato l’anno della nuova partenza, sono stati stanziati 50 miliardi di euro con l’obiettivo di raggiungere la totale decarbonizzazione nel 2038: 100 per cento elettrico in Europa e 50 per cento negli Stati Uniti per il 2030.
Questa è la narrazione, però le cose non sembra siano andate come previsto, soprattutto negli Stati Uniti e in Italia, i due mercati portati dalla Fiat Chrysler. E’ un caso? C’è chi pensa che Tavares non li abbia capiti o abbia voluto tirare una linea sul passato. Molti sono convinti che abbia imposto il modello Peugeot, dalle piattaforme all’organizzazione del lavoro. E’ uno dei maggiori punti di frizione con diversi stakeholders. Alcuni sostengono che il vero mantra sia dimenticare Marchionne. Daniela Poggio risponde negando qualsiasi egemonia Peugeot, i nuovi modelli sono costruiti su piattaforme native elettriche, ma capaci di accogliere le trazioni endotermiche, riguardano l’intera Stellantis e sono di nuova concezione. Ora è in corso una transizione dalle vecchie piattaforme sia della Fca sia della Psa che richiede tempo, lavoro e investimenti. Quanto a Marchionne, dopo l’acquisizione di Chrysler anche lui aveva cercato nuovi accordi per crescere, puntava alla General Motors e c’erano contatti con la stessa Peugeot. La transizione si può affrontare soltanto con una dimensione internazionale. Negli Usa esiste un doppio problema: un eccesso di stock e il rinnovo della gamma. L’Italia non sarà abbandonata, non c’è alcun progetto di farlo, e non ci saranno licenziamenti. Il piano sembra mostrare che non si produrrà più quanto si faceva prima della pandemia, ma del resto è il mercato dell’auto nel suo insieme che non tornerà ai livelli pre Covid. La riduzione delle vendite e della produzione riguarda tutti, però in Italia, con l’eccezione di quest’anno, è stata inferiore rispetto a Francia, Germania, Regno Unito.
La scelta di fondo è “affidare una missione a ogni stabilimento italiano di qui alla fine del decennio”. Non ci sono troppi modelli né sovrapposizioni nell’insieme del gruppo. A Mirafiori vengono investiti 100 milioni di euro per la nuova batteria della 500 elettrica, intanto c’è la sua versione ibrida la cui produzione dovrebbe iniziare il prossimo anno. Il resto sarà condiviso al Tavolo Stellantis. L’attività è assicurata, producendo veicoli elettrici e misti, fino al 2030-2033. La strada è creare un maggiore valore aggiunto, quindi più qualità, oltre alla quantità. L’Italia può diventare soprattutto un polo tecnologico. L’aumento dei volumi produttivi fino a un milione di veicoli l’anno, come vorrebbe il governo, sembra molto ambizioso e poco realistico. “Tralasciando che era un obiettivo al 2030, bisogna sempre partire dal mercato, e il vero punto adesso è prendere o perdere il treno della transizione, questa è la sfida”, insiste la manager di Stellantis. Non si tratta di chiedere soldi. Sostenere la domanda è fondamentale nelle fasi di transizione ed è corretto porre il tema a livello di tutti i paesi Ue perché non si vende solo dove si produce. Per produrre di più occorre anche ridurre il divario dei costi. L’auto elettrica in Europa ha costi di produzione superiori del 40 per cento rispetto a quella con motore endotermico, e la concorrenza asiatica ha un vantaggio competitivo importante. L’85 per cento dell’onere pesa sulla componentistica, dunque è l’intera filiera a essere coinvolta. Qui si apre la difficile partita degli incentivi. Ma anche quella dei fattori di competitività dove l’Italia sconta un divario ancora importante.
“Il taglio al fondo automotive ci preoccupa”, ammette la manager. E va rifinanziato anche il fondo ammortizzatori sociali. Per smentire alcune delle accuse ricorda che Stellantis ha avuto contributi solo per la ricerca e sviluppo, e sono appena l’uno per cento. Ma il problema non è solo quantitativo. Occorre agire su un insieme di fattori con strumenti diversi. Il costo dell’energia in Italia è superiore alla media del 40 per cento, invece è inferiore del 50 per cento in Spagna dove, tra l’altro, si lavora in stabilimenti più nuovi ed efficienti. Se per esempio ci fosse una fiscalizzazione dei costi energetici, sarebbe un vantaggio e non solo per l’auto, ma anche per l’acciaio, per la ceramica, per tutta la manifattura. Il sostegno alla transizione è una politica di sistema, non l’elargizione di aiuti a pioggia. “Stellantis ha investito in In Italia due miliardi euro l’anno da quando è nata, tuttavia non possiamo slegare mercato e produzione; inoltre gli incentivi vanno ripensati in una logica europea. Dobbiamo trovare il modo di rendere ancora grande l’industria automobilistica anche in Italia, un campione del futuro non del passato”, sostiene con entusiasmo Daniela Poggio. “Make automotive great again”, un Maga per l’auto. La nuova ragion d’essere è guidare il modo in cui il mondo si muove. Per essere di nuovo grande questa industria deve mutar pelle, diventare un amalgama di tecnologie digitali e ambientali, perché stiamo entrando nell’era della mobilità flessibile, pluralista, nella quale l’auto propria, il mezzo individuale, continuerà ad avere una posizione importante, ma non più esclusiva.
Vaste programme, avrebbe detto il generale de Gaulle.