Zelensky era l’unico pronto all’arrivo di Trump. Segnali concreti

Nel Piano per la vittoria ci sono due punti a prova di trumpismo: sicurezza e investimenti (anche in chiave anticinese). Kyiv non si è presentata a mani vuote all’arrivo del nuovo presidente e non si dispera

Per la disperazione non c’è tempo in Ucraina e, alla fine, davanti alla vittoria attesa di Donald Trump l’unico a non mostrare segni di impreparazione è stato proprio Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino ha coltivato con calma l’idea di un ritorno dell’ex capo della Casa Bianca, ha preparato se stesso e i suoi e ha formulato il suo Piano per la vittoria che sarebbe meglio definire un Piano per il negoziato. A Bruxelles, dopo l’annuncio della vittoria di Trump, che non era affatto impensabile, una nube grigia si è poggiata sulle istituzioni europee, un senso di impreparazione, stanchezza, abulia ha preso l’Ue intenta a portare avanti il processo delle audizioni dei suoi commissari. A Kyiv c’era poco da sconvolgere in un’atmosfera già stravolta da quasi mille giorni di guerra, c’era poco di cui lamentarsi, nulla da temere di più del presente. Zelensky si è preparato all’arrivo di Donald Trump in modo ambizioso, accogliendo di fatto il presidente eletto con quello che ha presentato per le capitali occidentali come una carta stradale per far finire la guerra e che potrebbe essere un buon amo per la futura Amministrazione americana. Secondo il Financial Times, più di un punto del Piano per la vittoria è stato pensato tenendo presente l’eventualità dell’arrivo di Trump, o meglio, nel tentativo di conquistare il futuro presidente americano. Zelensky sa quanto contano le relazioni personali e mai come per Trump la politica estera è stata questione di chimica.



Trump sostiene di poter porre fine alla guerra in ventiquattr’ore, ha definito Zelensky un “piazzista”, e suo figlio Donald Jr. gli ha detto che presto gli verrà tolta “la paghetta”. Tuttavia, le prime probabili nomine di chi si occuperà della politica estera nella futura Amministrazione non hanno lasciato l’Ucraina nella disperazione e anzi hanno fatto pensare che il rapporto trumpiano con Kyiv potrebbe essere meno sprezzante del previsto. Marco Rubio è un falco anticinese e anti iraniano e secondo Tymofiy Mylovanov, preside della Kyiv School of Economics, “è una buona cosa essere falchi quando si ha a che fare con la Russia”, anche se è favorevole, in linea con Trump, a un taglio degli aiuti all’Ucraina, ma non ne vuole l’umiliazione come prefigurato da alcuni esponenti del trumpismo. Michael Waltz potrebbe diventare il prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale, è sulla linea di Rubio e crede che sia l’Unione europea a dover spendere per Kyiv. Il quotidiano britannico ha raccontato che il Piano per la vittoria è stato formulato chiedendo consiglio anche a repubblicani di alto livello, esperti di come presentare le prospettive future dell’Ucraina a Donald Trump. Ci sono almeno due punti che sono a prova di trumpismo. Il primo riguarda la sostituzione dopo la fine della guerra delle truppe americane di stanza in Europa con soldati ucraini. Zelensky ha ben capito quanto sia forte la promessa trumpiana di disimpegno internazionale e offre i suoi uomini per fare la guardia ai paesi dell’Alleanza atlantica: così il futuro capo della Casa Bianca potrà dire di aver riportato a casa i suoi soldati, magari spostandoli dai paesi che non pagano abbastanza per la loro Difesa, come l’Italia, ma non avrà lasciato sguarnita la Nato. Il secondo punto a prova di Trump sarebbe stato suggerito dall’Ufficio del senatore Lindsey Graham – che non ha confermato l’indiscrezione – e riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali di Kyiv, offerte ai partner occidentali. Così formulata la proposta sembrerebbe anche una forma di risarcimento per il denaro che gli Stati Uniti hanno speso.


A settembre, Zelensky ha incontrato Donald Trump, proprio nei giorni in cui veniva definito “un piazzista”. Trump fece uscire, con grande sgarbo istituzionale, la lettera con cui il presidente ucraino chiedeva un incontro, rimase a lungo vago sulla possibilità che avvenisse davvero. Nel frattempo, senza scomporsi, Zelensky attendeva di essere ricevuto: e venne ricevuto. L’incontro era di particolare importanza non soltanto perché il presidente ucraino intendeva ingraziarsi il possibile vincitore delle elezioni, ma perché non si presentava a mani vuote, ma con un progetto che non ha lasciato Trump indifferente. Zelensky, ben consapevole dell’imprevedibilità del capo della Casa Bianca, è partito da New York sicuro di poter cambiare la situazione, con molti pensieri in testa, ma senza sentirsi rassegnato.



Ci sono altri due elementi che mostrano quanto l’Ucraina sia pronta all’arrivo di Trump e non sono contenuti nel Piano di Zelensky. Il primo è un segnale diplomatico: subito dopo la vittoria del repubblicano, Kyiv ha iniziato a ventilare l’idea di sostituire l’ambasciatrice ucraina a Washington. Lo speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, aveva chiesto il licenziamento di Oksana Markarova per la visita di Zelensky presso uno stabilimento di produzione di armi in Pennsylvania organizzata con i soli democratici. L’altro segnale è economico e viene dal mondo imprenditoriale ucraino pronto a conferire all’Amministrazione americana il potere di fare screening sugli investimenti che i paesi stranieri faranno in Ucraina. La proposta è stata ribattezzata AbC, acronimo di Anybody but China, chiunque tranne la Cina. L’unico impegno in politica estera che l’Amministrazione Trump sembra disposta a mantenere è quello contro Pechino e l’offerta ucraina presuppone che le industrie locali che dipendono da tecnologie e materiali cinesi passino a quelli americani.



Zelensky ha studiato con cura Donald Trump, si è fatto consigliare, sa bene a cosa va incontro, inclusi gli insulti dei suoi collaboratori e famigliari. Ma non si è fatto trovare impreparato, tanto che in ambienti diplomatici il piano di Zelensky ha un nomignolo a effetto: “Al piano manca una parte del nome, non è un Piano per la vittoria, è un Piano per la vittoria di Trump”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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