Annullata in Olanda la sentenza che obbligava Shell a tagliare le emissioni

La multinazionale era stata condannata in primo grado a ridurre le emissioni del 45%. Per la corte d’appello dell’Aia gli obblighi imposti all’azienda erano arbitrari, asimmetrici e inefficaci. Ambientalisti sconfitti, anche per le ricadute negli altri paesi europei

La corte d’appello dell’Aia ha accolto il ricorso della multinazionale energetica Shell contro la condanna, subita in primo grado nel 2021, a tagliare unilateralmente le emissioni dirette e indirette del 45% entro il 2030. Tale target era stato determinato sulla base della riduzione necessaria a livello globale per contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi. Quella sentenza, ritenuta storica perché per la prima volta un’impresa veniva obbligata a ridefinire i propri piani industriali e ambientali sulla base dell’accordo di Parigi sul clima del 2015, nasceva dall’iniziativa di un’associazione ambientalista, la sezione olandese degli Amici della Terra. Secondo il ricorso degli ecologisti, le responsabilità climatiche dell’azienda petrolifera – e conseguentemente i suoi obblighi di decarbonizzazione – andavano oltre il mero rispetto delle norme in materia di emissioni.

Per comprendere il caso, occorre ricordare che le emissioni vengono classificate in tre gruppi: le emissioni scope 1, direttamente generate dai processi industriali (per esempio la raffinazione del petrolio); le emissioni scope 2, che derivano dalla generazione dell’energia elettrica e del calore utilizzati dall’impresa nelle sue attività; le emissioni scope 3, che derivano dall’intera filiera, compresi i fornitori e i clienti. Nel caso di un’impresa petrolifera, dai consumi dei clienti deriva oltre il 90% delle emissioni totali. Secondo gli ambientalisti, Shell avrebbe dovuto non solo abbattere le sue emissioni scope 1 e scope 2, ma anche quelle scope 3, riducendo i propri investimenti nel settore petrolifero e sostituendoli con fonti rinnovabili. Il giudice di primo grado aveva accolto questa tesi. Ora il giudice d’appello l’ha respinta, facendo propria la difesa della multinazionale.

Anzitutto, Shell ha dimostrato di aver intrapreso adeguate misure per la riduzione delle proprie emissioni scope 1 e 2, anche al di là di quanto richiesto. Secondariamente, per quanto riguarda le emissioni scope 3, il target individuato in primo grado è arbitrario: non esiste alcun consenso scientifico su un valore numerico. Esso, infatti, dipende dalle caratteristiche specifiche del business e del processo produttivo: agli attuali livelli delle conoscenze tecnologiche, alcune attività (per esempio, la produzione di energia elettrica) sono più facili da decarbonizzare di altre (per esempio, i trasporti pesanti, che ancora richiedono l’uso di derivati del petrolio) e quindi non si può pensare che la riduzione delle emissioni proceda alla stessa rapidità in tutti i settori. Infine, poiché gran parte delle emissioni attribuite a Shell derivano dal consumo dei prodotti venduti, se anche l’azienda li ritirasse dal mercato, semplicemente i suoi competitor ne prenderebbero il posto, senza alcun effetto sulle emissioni complessive.

Nella sostanza, quindi, il giudice d’appello ha annullato la condanna a Shell perché gli obblighi imposti all’azienda erano arbitrari, asimmetrici e in ultima analisi inefficaci. Ha spiegato la presidente della Corte, Carla Joustra: “Anche se Shell, essendo una grande impresa petrolifera, ha una speciale responsabilità, questo non significa che si possa applicare un obiettivo di riduzione generalizzato del 45%”. Nei fatti, però, la decisione va al di là della mera valutazione di questi aspetti pratici. Shell aveva organizzato la propria difesa attorno a un argomento cruciale: la politica climatica, incluse le modalità per la riduzione delle emissioni e la definizione degli obblighi dei singoli, è in ultima analisi una scelta politica. Spetta alla legge individuare eventuali doveri (per esempio, l’abbandono della produzione di fonti fossili). Quella giudiziaria è una scorciatoia che non può essere imboccata, perché pregiudica l’equilibrio dei poteri su cui si fondano i nostri sistemi costituzionali.

Adesso la storia proseguirà: con ogni probabilità gli Amici della terra olandesi impugneranno la decisione di appello di fronte alla Corte suprema e, forse, alla Corte di giustizia europea. La notizia ha però un significato che travalica i confini dei Paesi Bassi: cause simili sono state incardinate contro Total in Francia, Rwe in Germania e contro l’Eni in Italia. Proprio il precedente olandese forniva un forte argomento ai promotori delle azioni in giudizio, che esortavano i tribunali nei vari paesi a seguirne l’esempio olandese. Ora che la giustizia dei Paesi Bassi ha ribadito che la politica climatica spetta ai governi e non ai giudici, quella tesi appare molto meno robusta e convincente.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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