C’è tanto da imparare sull’umanità nell’anima distrutta di Srebrenica

“I diari di mio padre” di Ado Hasanović, presentato in anteprima italiana al Medfilm Festival di Roma e in replica domani al Teatro Palladium, è una commovente elaborazione di un lutto collettivo e privato

Quando Ado Hasanovićc si trasferisce da Srebrenica a Sarajevo per frequentare la Sarajevo Film Academy, sua madre Fatima gli consegna una scatola di vhs e un plico di diari: sono la memoria di suo padre, Bekir Hasanovicć, degli anni della guerra in Yugoslavia e del genocidio di Srebrenica. A partire da questo materiale Ado realizza “I diari di mio padre”, prodotto da Palomar, e presentato in anteprima italiana al Medfilm Festival di Roma. In replica domani al Teatro Palladium.

La responsabile della programmazione Martina Zigiotti dice al Foglio: “La selezione dei film di quest’anno è legata dal tema del rapporto individuale e collettivo con i ricordi e la memoria. ‘I diari di mio padre’ racconta un pezzo tragico della nostra storia, ma è anche un film sulla vita e sul cinema come atto di resistenza”. E’ una commovente elaborazione di un lutto collettivo e privato. Si costruisce attraverso i diari e le riprese di Bekir, che improvvisa una troupe per documentare la guerra. Dal ’92 al ’95 filmano la quotidianità a Srebrenica e negli altri villaggi del territorio, da cui i serbo-bosniaci volevano epurare la minoranza musulmana, la loro. Se nei diari registra le preoccupazioni, la nostalgia e le paure, Bekir sceglie di filmare la vita, anche con umorismo: un bacio rubato nel misero appartamento dove si stipavano per ripararsi dalla pioggia di granate e darsi sollievo dal freddo e dalla disperazione con la rakija, comprata per 25 chili di farina; due amici si scatenano su una canzone rock, suonando un fucile come una chitarra; un esercito di contadini e tassisti scalpita per essere inquadrato e dare un ultimo bacio ai figli, alla moglie lontani, evacuati. Pochi sono sopravvissuti quando l’11 luglio 1995 l’esercito serbo di Mladicć entra a Srebrenica – l’Onu gli aveva praticamente aperto la porta – e in pochi giorni stermina più di ottomila persone con esecuzioni di massa, sgozzamenti. Ancora oggi si tirano i morti fuori dalle fosse comuni e si fanno i conti con la responsabilità della comunità internazionale. In migliaia tentarono di salvarsi riparando nei boschi, braccati dai serbi in una sadica caccia, la “Marcia della morte”. Bekir ne esce vivo, sono in pochi. Lo ritroviamo nel presente che respinge il figlio con la telecamera. Vive con Fatima in campagna, curano gli animali, cercano di non pensare al passato. E’ difficile: i profughi tornati nelle case bombardate per rimetterle a posto trovano come vicini fantasmi o, peggio, i loro aguzzini, che vivono ancora lì indisturbati. Per Bekir solo la generazione del figlio, allora troppo giovane per combattere, è in grado di mendare, costruire la pace. Per questo Ado Hasanovicć ha fondato il Silverframe Festival, il primo festival di cinema di Srebrenica, per lavorare sul presente e sul futuro, superare i limiti della politica attraverso il cinema. “Srebrenica ha l’anima distrutta, ma la gente che oggi vive qui ha un grande cuore, si può imparare tanto, soprattutto sull’umanità. Tanto c’è la morte tanto c’è la vita”.

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