Perché la pop art continua a fare moda

Mostre inattese. “Arte Povera”, fino al 20 gennaio del 2025 a Parigi, sulla storia e l’evoluzione di quel movimento artistico e “Queens by Andy Warhol” al Paleis Het Loo, ad Apeldoorn

Apeldoorn (Paesi Bassi). Arte Povera. Pop Art. È curioso che a distanza di un giorno, in Francia e nei Paesi Bassi, siano state inaugurate due mostre così diverse, agli opposti viene subito da scrivere – il minimal e ciò che non lo è – ma allo stesso tempo così simili, più vicine fra di loro di quanto si possa pensare. “In un’epoca in cui tutto è astratto e la tecnologia che ci fa scoprire il mondo resta per molte persone ancora qualcosa di opaco”, dice Carolyn Christov-Bakargiev, curatrice di “Arte Povera”, la grande mostra che la Bourse de Commerce/Collection Pinault di Parigi dedica fino al 20 gennaio del 2025 alla storia e all’evoluzione di quel movimento artistico nato in Italia negli anni Sessanta, che usava materiali semplici e naturali per sfidare le convenzioni dell’arte tradizionale: “Mi sembra necessario tornare ai fondamentali e ricordarsi perché la materia e i materiali siano così importanti. Per quegli artisti”, aggiunge, “l’arte era qualcosa di reale e di vivente, non mimetica o rappresentativa. Era fondamentale che fosse autentica, frutto di un’esperienza di verità e di accordo tra i nostri valori fondamentali e le nostre azioni”.

Questa valutazione calza a meraviglia anche la mostra che il sontuoso Paleis Het Loo, ad Apeldoorn, in Gheldria, a un’ora di treno da Amsterdam e dove “Il Foglio della Moda” è stato in esclusiva, dedica ad Andy Warhol e alle sue “Reigning Queens”, i ritratti delle grandi regine del Novecento riunite per la prima volta. Perché la pop art è un’altra espressione della creatività umana che sfida le convenzioni e le definizioni. Come l’arte povera, anche la pop art si libera dei luoghi comuni, delle idées reçues come avrebbe detto Flaubert; ne ribaltano anzi il senso a loro favore due termini, “superficiale” e “convenzionale”, associati sempre alla Pop Art e abusati in ogni modo, nell’arte come nella moda e non solo, che per Warhol erano sì validi, ma solo in apparenza. “L’arte”, come diceva, “è intorno a noi”, ed è così che lui la trovò enfatizzando l’idea del “ripetere” con il “non ripetere precisamente”, creando così ogni volta un’originalità nell’unicità e viceversa. Come ha scritto l’architetta libanese Gioia Sawaya, a cui si deve un progetto di riqualifica di Beirut impostato su una struttura effimera nella zona portuale della sua città che diventa luogo di memoria dopo l’esplosione del 2020, “il trionfo della ripetizione è da evitare, mentre il fallimento della ripetizione è da prediligere”. Nella ripetizione, Warhol trovava l’ispirazione e in questa tecnica i suoi sentimenti ottenevano un corpo artistico e una forma. Le sue serigrafie espongono colori, trame, tracce, motivi e sovrapposizioni di icone che rivelano illustrazioni di speculazioni basate su una ricerca di identità, su un tentativo di comunicazione, su una traduzione e un trasferimento dell’idea che la serigrafia sta cercando di creare, imporre, proporre e stabilizzare, creando una sfilata emozionale. Un esempio di questo approccio sono proprio le “Reigning Queens” esposte fino al primo gennaio del 2025 al Paleis Het Loo, uno dei principali esempi del barocco olandese, costruito su incarico di Guglielmo III d’Orange e dalla consorte Maria II Stuart, che nel 1688 sarebbe diventata regina d’Inghilterra. Una regina, appunto, come le quattro protagoniste di quelle serigrafie, che vennero trattate come rockstar in prima fila a una sfilata: Elisabetta II Windsor, Beatrice dei Paesi Passi, Margrethe II di Danimarca e Ntombi Twala dell’allora Swaziland, oggi Eswatini, l’unica che non diede all’artista il permesso di usare il suo ritratto. Compensò un’entusiasta regina Beatrice, la cui serigrafia fu creata da una foto ufficiale di Stato che le scattò Max Koot. Quei Sedici pezzi furono replicati quaranta volte nell’edizione “normale” e trenta in quella “royal”. Sedici serigrafie di queste ultime vennero acquistate nel 1986 dal museo olandese e si caratterizzano proprio perché ognuna è diversa dalle altre, ricoperte da una polvere di diamanti, in realtà dei pezzi di vetro finemente macinati da quel genio di Pittsburgh, un po’ come Thierry Mugler sulle sue iconiche giacche o in Italia da Giorgio Armani per la sua linea Privé. Anche se le serigrafie di Warhol sembrano simili, sono in realtà diverse. “La sua tecnica di stampa rende la ripetizione parte del significato dell’immagine”, spiega la curatrice della mostra, Hanna Klarenbeek, “e quelle opere sono in netto contrasto con la solennità, il barocco, l’oro e la tradizione di quel palazzo”. La sensazione generale è assai piacevole. Anche quando è concepita come ripetizione, dunque, “la sua serigrafia non smette di ripetere immagini finché la ripetizione non viene ingrandita in un tema di varianza e invarianza”. Ad Apeldoorn, unico posto in cui potrete vederle tutte e sedici insieme, le sovrane diventano così oggetti di consumo artistico e visivo come i personaggi hollywoodiani a lui molto cari, da Marilyn Monroe a Elvis Presley. La ripetizione è per lui spostamento, una differenza, un qualcosa che segna comunque una rottura, che apre a nuovi orizzonti, che propone nuove possibilità al di là del dislocamento e differenza. Rappresenta, in pratica, una transizione dalla ricerca del simile alla scoperta del diverso: lui che fu sempre accusato di superficialità, riuscì a distinguersi e fu in grado di ottenere la differenza. Come gli artisti dell’arte povera, certo, ma attraverso una somiglianza.

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