Le chat del nostro scontento. Dall’ossessione di Giorgia Meloni per gli “infami” al dramma dei gruppi WhatsApp delle mamme

Depotenziano la realtà e ci rendendo come una livella digitale tutti uguali, il ministro come il povero cristo, il giornalista celebre come il poveraccio che deve subire un audio di cinque minuti della chat di famiglia

L’ultima in ordine di tempo è quella tra Enrico Mentana e Aldo Cazzullo durante la drammatica nottata (e maratona) elettorale americana, quando una telecamera anarchica di La 7 ha inquadrato il cellulare di Mentana coi messaggi di Cazzullo dove quest’ultimo definiva Kamala Harris “la Casellati nera”; battuta peraltro mica male, e però è appunto l’ennesima volta che una chat desta meraviglia e scandalo; scandalo talvolta bonario perché le chat hanno ormai assunto questa funzione di coro greco, nella tragedia, anzi commedia, della nostra vita. Depotenziando la realtà, rendendoci come una livella digitale tutti uguali, il ministro come il povero cristo, il giornalista celebre come il poveraccio che deve subire un audio di cinque minuti della chat di famiglia.

E’ pura commedia all’italiana la società Equalize che controllava le chat degli intercettati ma cercava anche istruzioni online “in maniera molto approssimativa come creare delle chat false esplorando anche il sito del noto divulgatore informatico Aranzulla”, si legge nelle ordinanze. Si delinea una nuova banda del buco, i soliti ignoti di WhatsApp. Ma come ci siamo arrivati? Secondo la Treccani, una chat è “una forma di comunicazione online durante la quale un utente intrattiene una conversazione con uno o più utenti, in tempo reale e in maniera sincrona, attraverso lo scambio di messaggi testuali o stabilendo una connessione audio/video con essi. La chat nasce come forma di comunicazione testuale supportata da tecnologia IRC (Internet relay chat) che consente la comunicazione sia uno a uno, sia uno a molti. Questa ultima forma avviene in stanze di discussione o canali (channel), a cui ogni utente accede servendosi di un nickname e conservando quindi l’anonimato”.

Fenomeno prettamente italiano (gli americani non usano molto WhatsApp), sorto per colpa degli smartphone oltre che della piattaforma siliconvallica nata nel 2009, la grande distinzione è tra chat singola e quella famigerata “di gruppo” (“ti aggiungo al gruppo” è diventata la frase più terribile del vocabolario, quella che ci fa mettere la mano alla pistola, peggio di “è maligno”). I gruppi nel frattempo si sono espansi, fino al 2022 WhatsApp consentiva fino a poco più di 500 membri, oggi gli sfortunati possono arrivare al doppio. Poi ci si è messo pure il Covid: durante la pandemia i gruppi si sono moltiplicati, le chat hanno dilagato, la fantasia chiacchierona del Paese si è scatenata, per via scritta, in controtendenza in un’epoca in cui tutto è orale.

Ricchi e poveri, poracci e potenti, siamo tutti subissati dai gruppi – la chat di nuovo è democratica – tra quello della scuola, quello del condominio, e il più terribile, quello famigerato delle mamme. Tra le chat singole più celebri degli ultimi tempi ci sono quelle tra l’ex ministro Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia, quella di “mi hai sfregiato”, “mi fai diventare una iena”. Tra quelle collettive, invece, c’è quella governativa e quella antigovernativa. Al primo punto ricordiamo che Giorgia Meloni ha richiesto “una stretta alle chat”, nello specifico al ciattone di governo detto anche degli infami, quello in cui la premier aveva richiesto ai suoi di essere tutti presenti per l’elezione di un nuovo giudice della Corte costituzionale, ma la chat finì sui giornali, l’elezione sfumò, Giorgia sbroccò, partì la caccia appunto all’infame delle chat. “L’infamia di pochi mi costringe a non avere rapporti con i gruppi”, disse, e non si capì se intendeva i gruppi WhatsApp o quelli parlamentari (intendeva questi ultimi).

“Le chat sono troppo aperte. E’ la triste realtà, all’interno di questi gruppi WhatsApp ci sono ex parlamentari, ex dipendenti di FdI, ex uffici stampa. Evidente che le notizie escano e ci facciano anche del male”, confidava una fonte al Corriere. In una sotto-chat di Fratelli d’Italia, di ambito prettamente romano, è emersa anche la già celebre frase sui “pederasti” riferita all’ex capo di Gabinetto di Alessandro Giuli che ha portato poi alle dimissioni del suo estensore Fabrizio Busnengo rappresentante di FdI nel IX Municipio (che diceva anche di non essere omofobo ma di riportare il “sentiment” del partito). Ma “su una chat con il simbolo del primo partito d’Italia, o si ha la capacità di comportarsi o se ne sta fuori” ha detto il coordinatore di Fratelli d’Italia invece di Roma. Busnengo, che ha violato l’etichetta da chat, ha lasciato l’incarico al Municipio ma non, che si sappia, la chat, molto più importante. Lasciare la chat infatti oggi è peggio che essere cacciati da un partito, è un dramma, un segno di disfatta sociale, non a caso chi lascia non lascia solamente, “abbandona”, è il termine tecnico, che rende meglio il dramma.

La chat più chic e nota di opposizione è invece quella del 25 aprile. Lanciata dall’editorialista di Repubblica Massimo Giannini, era nata appunto il giorno della festa della Liberazione per farsi gli auguri, ma diventò immediatamente contenitore e “cosa” del centrosinistra di cui riassumeva bene pregi e difetti. Del ciattone antifascista facevano parte da Nina Zilli a Gustavo Zagrebelsky, da Urbano Cairo a Carlo De Benedetti, e ancora Romano Prodi e Roberto Saviano, Renzo Piano e Corrado Guzzanti, Eugenio Finardi e Beppe Fiorello. Una via di mezzo tra il Rotary e la festa dell’Unità, ed è ovvio che chi ha la fortuna di essere compreso in queste chat deve velocemente copiarsi e salvarsi i numeri di telefono di questi potenti in rubrica, prima che i potenti escano anzi abbandonino il gruppo. Possono sempre servire. Si pose anche tutto un tema di velocità nel rispondere agli auguri, appunto, di buon 25 aprile, una competizione, nel ciattone, e prima pare che si qualificò Francesca Fagnani battendo per millesimi di secondo Monica Guerritore. Si sviluppò subito un dibattito per i destini del centrosinistra, era tutto una iniziativa di Bonaccini e una risposta di Oscar Farinetti.

Come ha scritto Stefano Cappellini su Repubblica: “In poche ore la chat diventa un palchetto nel parco dove ognuno dice la sua: sul rischio fascismo, sui disastri della sinistra, e sulle cause, e sui rimedi. Giannini mette ordine chiedendo di restare sui temi che uniscono, aiutato da insospettabili spalle. Paolo Flores d’Arcais, una delle persone più iraconde della storia della sinistra mondiale, scrive cose di assoluto buon senso sulla necessità di non divagare e di concentrarsi sui temi unificanti, dato che basterebbe accennare di Ucraina o Israele per far esplodere la chat come il finale di Zabriskie Point. In realtà, a far danno basta meno, tanto che al virologo Roberto Burioni viene un coccolone quando la corrente filorussa posta l’immagine della bandiera sovietica issata sul Reichstag invocando riconoscenza anche per i compagni del Pcus e magari, già che ci siamo, pure un po’ a Putin. Parte il dibattito: facciamo un giornale, no un sito, no un partito, andiamo nelle scuole, organizziamo una grande manifestazione. Parliamo di sanità, no di autonomia, no di Costituzione. Finché il primo passo concordato è aprire un gruppo Facebook, ribattezzato ‘25 aprile sempre’, e focalizzato sulla lezione della Liberazione: la difesa della democrazia dalle torsioni autoritarie e colleoppiesche del governo”. Oggi appunto la chat del 25 aprile è dissolta, ma si è trasformata in un gruppo su Facebook.

Ma andando indietro, il primo a utilizzare la chat come forma di comunicazione politica fu Matteo Renzi, che si ricordi. Il suo portavoce Filippo Sensi, ora senatore Pd, aprì un gruppo WhatsApp coi giornalisti, cui impartiva dichiarazioni e “spin”. Ma poi con Renzi si è avuta anche una ufficializzazione del ruolo delle chat: secondo la Corte costituzionale le chat sono infatti equiparate del tutto alla corrispondenza e dunque non possono essere intercettate senza prima chiedere l’autorizzazione al Senato, come nel caso Open. “Cominciammo a usare WhatsApp in maniera abbastanza artigianale, in linea col rinnovamento comunicativo che Renzi aveva portato, c’erano anche la rubrica Matteo risponde su Twitter e altre cose”, dice Sensi al Foglio. “Anche per disintermediare alcuni riti della comunicazione politica, che comprendevano i ‘chigisti’, i giornalisti di stanza a Palazzo Chigi, e i retroscenisti; era un modo anche per velocizzare le informazioni minute, tipo a che ora è la conferenza stampa, eccetera. Facemmo anche un esperimento coi vocali di Renzi”. Oh, no, i vocali di Renzi no! “Ma oggi il sistema è diventato molto più avanzato, ci sono i gruppi broadcast, e le chat si sono moltiplicate”. Ce ne sono nel Pd? “Hai voglia. Ogni volta, finita una riunione, salutandosi ci si dice: e adesso apriamo una chat. Con la chat hai la sensazione di aver fatto qualcosa, la chat è l’approssimazione a un fatto. Oggi la chat è l’equivalente del vecchio tavolo. Apriamo un tavolo, si diceva un tempo”.

Oggi infatti nella maggioranza di governo si parla solo di e sulle chat. L’onnipotente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’attuazione del programma di governo Giovanbattista Fazzolari manda il fondamentale “ore11”, il mattinale che viene irrorato la mattina a tutti i politici di maggioranza con i fatti del giorno e il “framing” cioè l’angolatura da dare in eventuali dichiarazioni ai media. L’angolatura a volte tende all’angolo ottuso, tanto la verità viene piegata, a volte, alle necessità di propaganda, e di nuovo cadiamo nel comico. Quando esplose (è proprio il caso di dire) il caso di Emanuele Pozzolo, il deputato-sparatore di capodanno, la versione da chat era che si trattava di “un fatto di cronaca, non di politica”, ma politica o cronaca che fosse tiene banco ancor oggi con il recentissimo ingresso nella Commissione Difesa della Camera dello stesso Pozzolo.

Ma l’estrema praticità delle chat è anche il loro punto debole. Le chat hanno il problema di essere infatti facilmente infiltrabili dai giornalisti. Le chat nella gran commedia dei “leaks” italiani hanno sostituito ormai le intercettazioni audio, con gli screenshot che finiscono su giornali, in procura, in tv. In Fratelli d’Italia è alta la paranoia sulla segretezza di queste conversazioni, anche dopo gli “infami” di Giorgia Meloni; così si corre ai ripari. Si sa che la sorella Arianna, l’ha raccontato il nostro Simone Canettieri, non usa WhatsApp bensì Signal, una piattaforma di chat “peer to peer” qualunque cosa voglia dire, insomma blindata, non intercettabile, mentre nella sede di FdI hanno installato perfino un “jammer”, cioè un disturbatore di frequenze per rendere difficili le intercettazioni. Ne avrebbe avuto bisogno anche Virginia Raggi, indimenticata sindaca della Capitale, che a un certo punto aveva una famosa chat denominata “Quattro amici al bar”, con membri del suo gabinetto, di cui taluno venne arrestato. Quando si trovavano in presenza però gli amici sprovvisti di jammer non stavano al bar, a conferire, bensì sul tetto del Campidoglio, anche rischiando di cadere di sotto tra le rovine perché, dissero, “in ufficio ce stanno le cimici”.

Già, perché queste comunicazioni oltre a essere segrete sono delicate, delicatissime, come tentava di spiegare il pòro Sangiuliano alla sua Boccia; a volte, magari perché il mezzo è lo stesso con cui si parla nella chat dei parenti e degli amici, scappa la mano. Come successe a Rocco Casalino, maestro di cerimonie e di WhatsApp. Ex Grande Fratello divenuto comunicatore-in-chief di Giuseppe Conte (vi ricordate quelle conferenze stampa in esterna al chiaro di luna?). Casalino aveva una famosa chat con i giornalisti, in cui distribuiva “spin” e notizie, ma a un certo punto, forse per hybris, visto che qualcuno sosteneva che non era a fianco del presidente del Consiglio durante una delicata missione in Libia, lui per non saper né leggere né scrivere mandò la geolocalizzazione in tempo reale, funzione utilissima di WhatsApp ma anche pericolosa, visto che si trattava di una missione militare classificata come segretissima. Finì con una convocazione davanti al Copasir.

E poi c’era naturalmente Luca Morisi, “la bestia” della Lega, grande coordinatore delle strategie digitali di Salvini, decaduto dopo il rovescio di fortuna che gli capitò, pescato (di nuovo commedia all’italiana, siamo dalle parti dei “Complessi” di Dino Risi, episodio dell’integerrimo deputato democristiano in trasferta al Nord) in una cascina della bassa mantovana con delle sostanze e dei baldi giovanotti; insomma pare che nonostante il declino, Morisi sia ancora presente nelle chat della Lega, dunque non decaduto del tutto. Perché la chat è come la corrente nella Prima repubblica, o come le logge massoniche. Un po’ segreta ma non troppo, ci trovi dentro chiunque abbia un po’ di importanza. Anche a livello locale. “E’ la chat la chiave per capire chi sta in maggioranza e chi sta all’opposizione”, lamenta un tal Gianni Liviano, consigliere comunale di Taranto che è stato a un certo punto estromesso dalla canalina di governo della città pugliese. Locale o centrale, non cambia nulla. Segnalano a Roma la chat del ministero della Difesa, gestita da Ettore Maria Colombo, dal titolo patriottico di “Il Piave mormorava, calmo e placido, al passaggio, dei primi fanti, il Ventiquattro maggio”. Vabbè. Elly Schlein invece non avrebbe chat bensì un gruppo su Facebook dedicato però a Sanremo (dopo il duetto con gli Articolo31 e la dichiarazione sulle ambizioni da regista tutto concorre a far pensare che il trasbordo nell’altra sua carriera nello show business sia prossimo). Anche in Forza Italia si chatta poco, dicono, sono poco tecnologici, scarsamente hi tech.

In area governativa in questi giorni dopo la vittoria di Trump sono tutti eccitatissimi invece nella chat “amicidiMariaGiovanna” dedicata alla scomparsa giornalista Maglie, e gestita dalla lobbista Francesca Chaouqui. Ne fanno parte l’ex ministro Sangiuliano, la ministra Santanché, il portavoce dei Pro Vita Jacopo Coghe, Suor Monia Alfieri, Simone Pillon. Si sbellicano su battute come “e adesso Kamala va a lavorare da McDonald’s” e “lasciare ben metà dello stipendio ad uno come Raimo è pure troppo”, l’insegnante-scrittore sospeso da Valditara. Durerà? Perché le chat segnalano anche le fortune o il declino dei politici di turno e registrano i momenti storici: nel 2021 scattò l’allarme quando nella chat della Lega nessuno si filava più il segretario Salvini (perché le chat sono anche il moderno luogo del salamelecco e dell’adulazione); segno di una crisi di leadership? Allo scoppio della guerra d’Ucraina si distinsero invece tre chat leghiste che erano molto affezionate a Mosca, come scrisse sempre Canettieri sul Foglio.

Ma epica era anche la chat di Sgarbi, “Rinascimento e dissoluzione”, gestita insieme a Morgan. Leggenda vuole che vi fosse iscritta anche Giorgia Meloni (ma nessuno verificò mai; invece fu confermata la presenza di Memo Remigi). Finì come prevedibile con una mega rissa tra Sgarbi e Morgan. Il rinascimento non arrivò, ma la dissoluzione sì, abbastanza veloce.

Ma anche fuori della politica ci sono praterie di chat; c’è quella dei lobbisti di Claudio Velardi, quella della cultura di Angelo Argento, quella del cinema di Antonio Monda, quella del podcast di Gianni Riotta. E poi un’infinità di altre per tutti i gusti. In alcune si discute, altre sono mute. Di sicuro se non fai parte di queste chat non sei davvero nessuno, e allora magari ne inventi una tu, così nessuno di noi è al sicuro. Come per i podcast, ci sono probabilmente più autori che ascoltatori. E allora ti può capitare che per strani motivi algoritmici ti arrivi l’immancabile messaggio con l’imperdibile post del giornalista mettiamo andato in pensione 35 anni fa ma che non molla, e affida a WhatsApp i suoi pensieri geopolitici o musicali, e ti arrivano a mezzanotte o alle cinque di mattino, svegliandoti. Ma se abbandoni il gruppo, se ne accorge subito, e si offende tantissimo. Di norma vale l’antica regola: sii sempre gentile, ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia, per fondare un gruppo WhatsApp. O per uscirne.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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