Sabato 9 novembre a Udine la Nazionale gioca contro i sudamericani il primo dei tre test-match autunnali. Qualche spunto per capire la distanza che ancora ci separa dalla selezione argentina
Perché la prima partita disputata in Argentina risale al 1873, invece in Italia nel 1910, e quei 37 anni di differenza si sentono ancora, si sentiranno sempre.
Perché la prima partita internazionale dell’Argentina risale al 1910, contro una selezione dell’Università di Oxford rinforzata da alcuni scozzesi, invece quella dell’Italia fu giocata nel 1929, a Barcellona contro la Spagna, e anche quei 19 anni di differenza si sentono e si sentiranno.
Perché, lo diceva Jean Lacouture, giornalista e storico francese, direttore di “Le Monde”, i rugbisti argentini sono italiani che parlano spagnolo e sognano di essere inglesi. Basta guardare le formazioni: i cognomi degli argentini suonano italiani (compreso quello dell’allenatore Contepomi) più degli stessi cognomi degli italiani. L’aforisma di Lacouture andrebbe comunque aggiornato, riveduto e corretto: i rugbisti argentini sono italiani che parlano spagnolo e sognano di battere gli inglesi, anche a rugby. Quanto agli italiani, gli italiani sono italiani, anche nel rugby. Gianni Brera sosteneva che “il rugby ha bisogno di terreni erbosi perfetti per diffondersi in Italia, altrimenti chi fa un placcaggio rischia un cesareo”, e così è stato.
Perché c’era un giocatore argentino esile e asmatico, ma vulcanico e feroce, giocava mediano di mischia, ma anche terza linea o trequarti, e si distingueva soprattutto come placcatore, i compagni lo chiamavano Fuser, la contrazione di furibondo (che non richiede traduzione) e Serna (il cognome della madre), ma i suoi nome e cognome erano Ernesto Guevara, e sarebbe entrato nella storia come “el Che”. Compagni e familiari erano sempre pronti a intervenire, per risolvere le crisi di asma di Fuser, con una bomboletta di antiasmatico spray. Nei terzi tempi, quando le due squadre si ritrovano dopo la partita per mangiare e bere insieme, alla birra Fuser preferiva un mate. Smesso di giocare, Fuser continuò a occuparsi di rugby: da tecnico, da teorico, da giornalista, da appassionato.
Perché l’Argentina del rugby aveva il suo Maradona prima dell’Argentina del calcio. Si chiama Hugo Porta, giocava sia a calcio sia a rugby, la sua specialità era colpire il pallone con i piedi, e lo faceva con rara potenza e rarissima precisione. Indossava lo stesso numero di Diego Armando: il 10. Quando il Boca Juniors gli offrì un contratto, Hugo Porta rispose no grazie, prima avrebbe voluto laurearsi in Giurisprudenza. E da dottore in Legge, si dedicò al rugby, mediano di apertura e calciatore, spesso decisivo. L’unico paragonabile a Hugo Porta, per l’Italia, è stato Diego Dominguez, forse non a caso argentino.
Perché, parola di un rugbista italiano, “la prima volta che ho sentito la parola Viagra pensavo che fosse un pilone argentino”.
Perché da quando l’Argentina è stata ammessa al Tri Nations, il meglio dell’Emisfero Sud, con i neozelandesi All Blacks, gli australiani Wallabies e i sudafricani Springboks, è diventata ancora più brava, più forte, più tosta. E più vincente. Nell’ultima edizione del torneo, che adesso si chiama Championship, agosto e settembre 2024, i Pumas hanno sconfitto gli All Blacks in Nuova Zelanda e gli Springboks campioni del mondo in casa, perso di un punto ma poi vinto di 40 contro l’Australia in casa.
Perché l’Argentina non è mai stata allenata da un italiano, invece l’Italia è allenata da un argentino, Gonzalo Quesada, e lui è il primo a dichiarare che abbiamo ancora tanto da imparare.
Perché l’Argentina ha 120mila rugbisti tesserati, invece l’Italia la metà.
Ecco perché sabato 9 novembre, alle 18.40, a Udine, contro l’Argentina, nel primo dei tre test-match autunnali (gli altri, domenica 17, alle 14.40, a Genova, contro la Georgia, e sabato 23, alle 21.10, a Torino, contro gli All Blacks), per l’Italia vincere sarebbe un’impresa, se non un miracolo. Finora, su 19 match, 13 volte hanno vinto i Pumas, cinque gli azzurri, un pareggio. Significa che ogni tanto le imprese riescono, e perfino i miracoli.