Il nuovo Trump e tutti gli errori del Partito democratico. Parla Sam Tanenhaus

“I progressisti e i detrattori di Trump contano sulle sue numerose bugie. Ma i suoi sostenitori rispondono alla sua schiettezza emotiva, al suo piacere disinibito di spiattellare tutto ciò che sente in quel momento, spesso con un linguaggio volgare e offensivo”, dice il giornalista

“C’è una tendenza, negli Stati Uniti e anche all’estero, a cercare di capire Trump e il movimento MAGA in termini politici, per esempio con infinite speculazioni sul fatto che sia un fascista: il cosiddetto dibattito sulla parola con la F”, dice al Foglio Sam Tanenhaus, giornalista e storico, ex direttore della New York Times Book Review. “A mio avviso, tutto ciò non tiene conto del fatto più importante di Trump: è un tipo decisamente americano, riconoscibile nei classici della letteratura di Herman Melville – ‘The Confidence Man’ –, Mark Twain – scegliete voi il vostro preferito –, e da classici popolari come ‘Il Padrino’ e ‘Wiseguy’, alla base di ‘Quei bravi ragazzi’ di Scorsese, e ‘I Soprano’. Se a questo aggiungiamo il wrestling professionistico e il programma tv ‘The Apprentice’, ci rendiamo conto che Trump domina il luogo in cui la politica incontra l’intrattenimento, proprio come ha fatto Berlusconi prima di lui”.



Secondo Tanenhaus, che nel 2009 ha scritto “La morte del Conservatorismo” (Random House) questa del presidente eletto è la versione del XXI secolo di ciò che gli scienziati politici un tempo chiamavano “politica espressiva”: “Si applica sia agli elettori sia ai leader. I progressisti e i detrattori di Trump contano sulle sue numerose bugie. Ma i suoi sostenitori rispondono alla sua schiettezza emotiva, al suo piacere disinibito di spiattellare tutto ciò che sente in quel momento, spesso con un linguaggio volgare e offensivo. E’ quello che una volta si chiamava ‘antisociale’, una specie di delinquente geriatrico, e molti anziani si sentono in un’epoca di ‘correttezza politica’ o di ‘wokeness’”. E così, “i progressisti che sono scioccati dalle falsità di Trump dovrebbero ricordare che non molto tempo fa, al culmine del movimento MeToo, sorto all’inizio del primo mandato di Trump, si parlava molto di donne che dicevano ‘la loro verità’. Ebbene, indovinate chi sta dicendo la ‘sua’ verità adesso?”, dice Tanenhaus. Il suo profilo si applica anche alla possibile futura politica estera americana: “Trump e Netanyahu sono quasi gemelli nella loro brama di potere. I calcoli di Trump sono puramente, cioè impuramente, transazionali. Gli piacciono i bulli e i duri. Biden è stato ostile alla Cina quanto Trump. E quest’ultimo potrebbe semplicemente continuare quella che è stata una politica abbastanza coerente di guerra commerciale e di velata minaccia militare con Pechino”.


Resta da capire cosa sia avvenuto dentro al Partito democratico: “I dem sono stati divisi per tutta la durata di quella che tutti chiamano l’èra Trump”, spiega Tanenhaus, “proprio come i repubblicani erano confusi e divisi nella lontana èra Roosevelt. Faccio questo paragone perché anche Roosevelt, l’eroe e il modello dei progressisti che sono venuti dopo, ha ripetutamente violato le ‘norme democratiche’, per esempio quando si è candidato per un terzo mandato, in una rottura scioccante con la tradizione presidenziale che ha fatto sì che molti lo paragonassero ai dittatori fascisti all’estero, in un periodo in cui quei dittatori erano Hitler, Stalin e Mussolini, e anche quando Roosevelt ha cercato di ‘impacchettare’ la Corte suprema aumentando il numero dei giudici”.

Per il giornalista americano oggi il Partito democratico “non è stato in grado di trovare una strada perché l’elettorato del partito è una sorta di puzzle di pezzi mal incastrati”. In generale, spiega Tanenhaus, “il partito è diviso tra gli istituzionalisti ‘neoliberali’, il cui grande tema è lo ‘stato di diritto’, e i progressisti ideologici, che sono più giovani e abbracciano temi come il Green new deal ambientalista e la politica identitaria”. Chi è il leader in grado di unire queste fazioni?, si domanda il giornalista: “La rapidità mozzafiato dell’elezione di Kamala Harris a nuova candidata sembrava risolvere il problema della divisione interna, ma in realtà si trattava di una soluzione temporanea e d’emergenza, brillantemente gestita da Nancy Pelosi”, che secondo Tanenhaus è “la più importante statista della politica statunitense”, e dalla stessa Harris, “che ha dimostrato un vero talento come promotrice di campagne elettorali, possibile erede del suo mentore Barack Obama. Ma la speranza o l’illusione si è infranta ieri. La generazione Z alla fine non si è mobilitata per lei: Gaza si è messa in mezzo, così come la sua precedente storia di procuratrice in California”. E’ un dato, per esempio, che Harris abbia velocemente abbandonato “la promessa iniziale di perseguire il ‘criminale condannato’ Trump. Le folle l’hanno apprezzata. Ma per alcuni elettori di sinistra, tra cui, forse, i neri, ha fatto emergere domande preoccupanti sul passato di Kamala nelle forze dell’ordine”, che è stato un problema quando si è candidata già nel 2020.



Per Sam Tanenhaus l’uomo da osservare adesso è Vance: “Quello che mi è subito venuto in mente pensando al futuro è che non dobbiamo dimenticarci di J. D. Vance. E’ molto, molto giovane, ambizioso e disciplinato, ed è ben collegato ai pensatori più intelligenti e audaci della destra ‘post liberale’. Se Trump, che è vecchio e stanco e ha un disturbo da deficit di attenzione, gli darà spazio, oppure se si ammalerà, questa diventerebbe la presidenza Vance”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

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