“Trump ha vinto le elezioni – dice lo storico custode del Vittoriale – ma Giorgia Meloni saprà tutelare l’interesse nazionale dalla politica del tycoon”
“Donald Trump ha vinto l’elezioni – dice – ma il campanello d’allarme non è suonato”. Dopodiché aggiunge: “Suonerà non nel breve ma nel lungo periodo: quando la politica energetica e climatica statunitense entrerà nel vivo, quando l’America presterà il fianco all’imperialismo putiniano, la Russia s’impadronirà dei territori ucraini, e i dazi si scaglieranno contro gli esportatori italiani. Suonerà, voglio dire, quando e se Donald Trump terrà fede alle promesse elettorali”. A parlare al Foglio è lo storico Giordano Bruno Guerri: studioso del Ventennio, presidente della fondazione Vittoriale degli Italiani e quindi venerando custode della casa-museo di Gabriele D’Annunzio (nominato nel 2008 dal centrodestra, con il ministro Sandro Bondi, e confermato dal centrosinistra con Dario Franceschini).
Guerri, che si manifesta intimorito e a tratti inorridito da Donald Trump (sarà forse l’epitome del dannunziano d’accatto? Chissà), pensa però cha la vittoria del tycoon – “invero una sconfitta” – sia in capo al partito democratico statunitense. Al quale lo storico imputa la responsabilità di “aver aspettato troppo tempo: un tempo infinito prima d’indicare la candidata Kamala Harris. Che comunque non ha recuperato il vantaggio per un motivo preciso”. Quale? “Harris non ha saputo afferrare gli argomenti veri – sostiene Guerri – in primis le due guerre. Non ha colto gli umori e i pensieri profondi: la cosiddetta pancia dell’elettore”. Harris avrà puntato non sulla pancia ma sul cervello al punto d’apparire cervellotica.
Ma adesso, stando al paese nostro – “guardando al nostro ombelico”: così ci rimprovera l’intervistato – è probabile che l’interesse nazionale statunitense non coincida con quello italiano. Si sa che i dazi non sono mai un bene. Epperò da Matteo Salvini in avanti una sfumatura trumpista si raccende a destra. Perché? “Sono cose ombelicali”, ribadisce Guerri che del leader della Lega vorrebbe non parlare. “Non dico che sia provincialismo – sminuirei il fenomeno – ma sa…”. Cosa? “Noi siamo poco più d’un fuscello. E, semplicemente, qui come altrove, c’è chi segue la corrente”. Matteo Salvini segue la corrente. E anche Giuseppe Conte (ovvero “Giuseppi”, come lo ribattezzò “the president” anni fa).
Ma ecco, venendo adesso a politici meno periferici, cosa accadrà invece in casa Meloni? “Penso che la premier sarà abbastanza accorta – e abbastanza europeista – da mantenere una certa distanza. A dire il vero, stento a credere possa farsi trascinare nel vortice trumpista da Salvini”. In due anni Meloni ha modulato la sua politica estera sulla scorta dell’agenda statunitense: a cominciare dalla guerra in Ucraina. Possiamo dire, secondo lei, che qui si parrà la sua nobilitate? Insomma, lo capiremo adesso se il supporto a Zelensky è un fatto di convincimento o di allineamento? “No. Non credo. Giorgia Meloni, che pure non ondeggia mai sulla vicinanza agli USA, è convinta e allineata all’Unione Europea. E penso sarà oculata nella tutela dell’interesse nazionale”.
Meloni avrebbe votato Harris? E lei, Guerri, chi avrebbe votato? “Non lo so. Sono due candidati invotabili: uno per tracotanza, l’altra per inconsistenza. Due opzioni per le quali mi è quasi impossibile entrare nella logica del male minore. Avrei dovuto essere americano per rispondere alla sua domanda. Ma una cosa è sicura…” Cosa? “Mai avrei votato Trump”. Le suscita tanto orrore? “Mi intimorisce”. Addirittura. “È la quintessenza dell’uomo forte”. Uomo forte? Questo però sembra un complimento. “Non per me. Che sull’uomo forte ho appena scritto un libro. Titolo? Benito”.