Le attiviste dell’Iran contro le ecofemministe europee, a cui manca il coraggio di identificare chiaramente ciò contro cui stanno combattendo: “Avete il diritto di essere stupide, ma è meglio se tacete”
Teheran, Università di Azad, con cui ha stretto accordi anche la Sapienza di Roma. La “polizia morale” aggredisce la studentessa Ahou Daryaei con il pretesto di un velo della misura “inadeguata”. Lei, per protesta, si denuda. Poi inizia a camminare, indifferente alle forme nere che incrociano il suo cammino. Nessuno le si avvicina, come se fosse diventata radioattiva. Il resto, raccontato dai testimoni, era prevedibile: arresto, botte e detenzione in un manicomio, come si faceva in Unione sovietica con i dissidenti. Prevedibile, come un certo silenzio delle femministe occidentali.
L’attivista Nilufar Saberi, già presidente dell’Associazione iraniana per i diritti umani, denuncia: “E’ molto triste, ma non posso smettere di dire la verità, non importa quanto mi addolori: non sentiamo il sostegno del femminismo internazionale per la nostra causa. C’è solo un sostegno isolato”. Non sappiamo ancora se lo faccia apposta o se sia al di là delle sue capacità, ma una cosa è certa: la più famosa deputata femminista francese, Sandrine Rousseau, continua a non capire niente. Prima ha detto che il velo islamico è un potenziale “abbellimento” delle donne. Poi Rousseau è stata fischiata alla manifestazione a sostegno delle donne iraniane a Parigi: “Perché, in una manifestazione a sostegno delle donne, le donne vengono fischiate?”. Ma dei sette relatori che erano tutte donne solo Rousseau è stata fischiata.
Finalmente l’ecofemminista ha trovato il coraggio di difendere la giovane arrestata nel campus di Teheran. Ma Rousseau è tornata a ricordarci, in 280 caratteri, che ancora non ha capito niente: “Il nostro corpo e tutto ciò che indossiamo (o meno) ci appartiene”. Il diktat dei mullah che imprigionano e uccidono per un velo, e il laicismo francese che lo vieta: stessa lotta. Così l’iraniana Marjane Satrapi, l’autrice di “Persepolis”, ha risposto alla leader dell’ecofemminismo francese: “Che tu non capisca la situazione e che tu sia stupida, va bene. Tutti hanno il diritto di essere stupidi. Ma a questo punto è meglio tacere”.
Le femministe iraniane esuli in Europa sono sul piede di guerra con le colleghe occidentali. “Non hanno il coraggio di identificare chiaramente ciò contro cui le donne iraniane stanno combattendo, vale a dire l’islamismo, la legge della sharia e questa oppressione religiosa patriarcale, non hanno il coraggio di identificare il nemico”, attacca Mona Jafarian, figura iraniana di spicco a Parigi. Parlando con il Figaro, Jafarian dice: “Ho capito che il femminismo nella sua forma attuale è morto. Il giorno dopo la morte in Iran di Mahsa Amini, mi sono resa conto subito che nessuna delle personalità o nessuno dei grandi collettivi mi stava comunicando o parlando apertamente dell’argomento. L’ho trovato irreale: era la prima rivoluzione femminista della nostra èra moderna, e loro tacevano. Le femministe non hanno parlato molto del destino delle donne afghane e iraniane, perché, in modo speculare, dicono a se stesse che ciò potrebbe essere dannoso per gli islamisti, e quindi in modo speculare per i musulmani”.
Un incontro tra l’eminente dissidente iraniana Masih Alinejad (sotto scorta in America e quando viene in Europa per i numerosi tentativi iraniani di rapirla e ucciderla) e alti funzionari tedeschi è finito nel caos per l’insistenza del governo tedesco affinché l’incontro fosse mantenuto segreto. “Il governo tedesco si incontra pubblicamente con i nostri oppressori, ma vogliono nasconderci?”, Alinejad ha detto a Politico. “Non ho nulla da cui rifuggire. Devo stare al fianco della mia gente perché sono orgogliosa di loro. Non posso tenere una riunione a porte chiuse. Se la politica tedesca è tutta incentrata sul femminismo, allora voglio vedere delle azioni concrete”. Come ricordava Anna Paola Concia sul Foglio, in Italia praticamente nessuna grande organizzazione femminista ha fiatato sulla sorte di Ahou Daryaei, mentre la Repubblica è preccupata: “La vittoria di Trump è anche la vittoria del patriarcato”.