L’ex presidente ora ha un mandato forte, la maggioranza al Senato, ha spaccato il suo partito e l’ha rimesso in piedi portandolo a una vittoria “transformational”: aveva potere assoluto pure quando perdeva, figurarsi adesso. Il discorso di Biden
Washington, dalla nostra inviata. Washington aspetta il ritorno di Donald Trump sbaraccando transenne e barriere messe nell’ultima settimana a protezione del processo elettorale: ha vinto lui e i negazionisti del voto sono diventati silenziosi, innocui, quasi non fossero mai esistiti. Si sapeva che Trump avrebbe cercato di vincere anche perdendo, c’era scritto su tutti i forum online legati allo slogan “Stop the Steal”, fermate i furti elettorali, ma non c’è stato bisogno di contestazioni, marce e assalti: l’America s’è consegnata al suo ex presidente in modo deciso, ignorando l’allarme democratico, fidandosi della promessa trumpiana di aggiustare quel che i democratici hanno rotto. Il presidente Joe Biden ha parlato per la prima volta dopo la notte elettorale, ha detto che il rispetto della volontà popolare fa parte della democrazia così come il trasferimento pacifico del potere e, per incoraggiare i suoi, che lo accusano di essere responsabile di questo fallimento, ha aggiunto che le sconfitte fanno parte della vita, rassegnarsi però è imperdonabile.
Sa di cosa parla, Biden, perché la sorpresa del 2016 non c’è più, c’è semmai proprio un senso di rassegnazione, i segnali della trasformazione trumpiana in corso sono così forti e abbaglianti che non si può che fare l’autopsia della coalizione del Partito democratico – e seguire il regolamento dei conti interno post sconfitta, spegnendo la tv perché molti commentatori continuano a prendersela con gli elettori che votano “male” – e buttarsi sulla transizione in arrivo. Trump ritorna a Washington ed è tutto diverso rispetto a otto anni fa perché ha un mandato forte, la maggioranza al Senato (al Congresso si sta ancora contando, ma la maggioranza c’era già prima, è difficile che la perda in una tornata elettorale così solida), ha spaccato il suo partito e l’ha rimesso in piedi portandolo a una vittoria “transformational”: aveva potere assoluto pure quando perdeva, figurarsi adesso.
Trump sembra l’unico ad aver capito davvero gli americani, ad aver detto loro quello che avevano bisogno di sentirsi dire – basta inflazione, basta immigrati – e ad aver strappato voti nelle roccaforti dei democratici oltre che negli stati in bilico (qui è tutto un chiedere: ma hai visto New York?). I repubblicani si sono messi in fila ordinati per essere selezionati dal team che si occupa della transizione e in particolare da Howard Lutnick, ceo della Cantor Fitzgerald, amico di lunga data di Trump che molti ricordano con affetto: pianse davanti alle telecamere nei giorni successivi all’11 settembre, nell’attacco erano morti 658 suoi dipendenti, lui quella mattina non era in ufficio alle Torri perché aveva accompagnato suo figlio al primo giorno d’asilo. Finora Lutnick ha messo insieme la cosiddetta “coalizione Wall Street”, i manager e imprenditori che hanno sostenuto la campagna elettorale (meno ricca di quella dei democratici ma trainata da pochi donors generosissimi) e ora fa le selezioni per il governo, anche se qualcuno dice che intanto fa campagna pure per se stesso, ambirebbe alla carica di segretario al Tesoro, dove però la competizione è serrata e un altro miliardario, John Paulson, sostenitore della prima ora a differenza dello stesso Lutnick, è il più accreditato. In una intervista fatta prima del voto, Lutnick aveva segnalato le linee guida per quel che riguarda le scelte che più interessano la sicurezza del resto del mondo, il dipartimento di stato e la Difesa: non siamo interessati a persone come Jim Mattis o John Kelly, cioè professionisti con le loro idee pronti a scontrarsi con il capo, ma assumeremo chi garantisce di essere “fedele alle politiche del presidente”.
C’è da dire che quei professionisti non sono nemmeno più disponibili, ma è chiaro che la vittoria elettorale amplierà il bacino di chi si professa fedele. Tra i sopravvissuti della prima Amministrazione c’è Mike Pompeo, capo della Cia e poi segretario di stato che ha cercato anche brevemente di candidarsi quest’anno: Pompeo ha già superato il vetting trumpiano allora, dopo essere stato critico nei suoi confronti, e poi si è riscattato diventando quel che chiamano il “gatekeeper”, il custode del trumpismo alla Casa Bianca (come per molti, le critiche blande dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio sono state condonate). Ma i nomi che circolano tra Pentagono e dipartimento di stato sono parecchi, alcuni lo sono con più insistenza: Ric Grenell, ex ambasciatore trumpiano in Germania (a Berlino non lo dimenticheranno mai) e poi capo della National Intelligence, è consigliere di Trump, che lo chiama il “mio inviato”, ed era presente all’incontro con Volodymyr Zelensky alla Trump Tower, cosa che ha fatto salire le sue quotazioni; e Marco Rubio, senatore della Florida ex campione dell’eccezionalismo americano, l’antitesi del trumpismo, poi diventato un sostenitore dell’ex presidente, è già stato scartato come vicepresidente e ora conta in un risarcimento, possibilmente a Foggy Bottom.
Nomi a parte, mentre il galeotto Steve Bannon fa trapelare, forse soltanto perché terrorizzare è il suo mestiere, che la deputata Marjorie Taylor Green, fedelissima di Trump a favore della deportazione di massa degli immigrati, potrebbe essere scelta per il ministero dell’Interno, alcuni dicono di seguire con attenzione i lavori di un centro studi che non è l’Heritage Foundation e il suo Project 2025 – un altro spauracchio ostentato grandemente dal Partito democratico che gli elettori hanno ignorato assieme al pericolo fascista – ma è la creatura di tre ricchi texani che quattro anni fa non esisteva nemmeno: l’America First Policy Institute (Afpi). E’ diretto da Linda McMahon, che ha aiutato la campagna elettorale con qualche milione di dollari (20, ha scritto il New York Times) e che guida il team della transizione assieme a Lutnick; la ceo, Brooke Rollins, è nella rosa dei possibili chief of staff alla prossima Casa Bianca. L’Afpi ha scelto di dare consigli ai trumpiani senza farsi troppo notare, mescolando formazione, fondi e analisi, concentrandosi sul tema dell’efficienza del sistema, quello che sta a cuore soprattutto a Elon Musk, uomo-chiave della vittoria, della transizione, del prossimo governo. Questa riservatezza ha fatto sì che soltanto l’Heritage denunciasse, per ragioni di competizione, l’Afpi, che Trump dicesse esplicitamente che preferiva l’Afpi disconoscendo il Project 2025, ma che tutti gli altri, compresi i democratici, continuassero a parlare di questo piano e non dei corsi di formazione dell’Afpi ai trumpiani. Un abbaglio, un altro.