Trent’anni dopo Franco Moschino la moda è cambiata radicalmente: da simbolo di sogno esclusivo a fenomeno di massa, tra fast fashion, influencer e una rivoluzione digitale senza ritorno
Trent’anni fa moriva Franco Moschino, lo stilista che tra lucidità e ironia metteva per la prima volta in discussione il mondo della moda e la moda stessa con le sue sfilate e le sue creazioni e che, pur rispettandoli, criticava riti e miti degli anni d’oro del prêt-à-porter italiano. “Non sono uno stilista”, “Stop the Fashion System” erano le sue iconoclaste dichiarazioni nelle risposte alle interviste o sulle t-shirt. Anticipava di alcuni decenni quello che sarebbe puntualmente arrivato. Che la Moda, intesa come aspirazione, come sogno, non esistesse più. Negli anni Sessanta, Settanta, la Moda vera, quella che indicava le tendenze, era nelle mani dei couturier che da Roma, da Parigi, con le loro sfilate esclusive, lanciavano longuette e vitini di vespa, linee ad H o ad A, imponevano certi tessuti o certi colori con la complicità dei tessutai italiani.
Influenzavano le riviste sofisticate, come “Vogue”, “Bazaar”, “Linea Italiana”, con le loro fotografie d’autore che a loro volte suggerivano ai negozi e alle sartine le tendenze cui uniformarsi. Alle sfilate si assisteva nei loro atelier su seggioline dorate, due o tre file al massimo. Le modelle si chiamavano indossatrici. I fotografi erano quelli della casa, e lor signori concedevano alla stampa pochissime fotografie per la pubblicazione in anticipo: Balenciaga solo due, Givenchy arrivava a tre. Le signore eleganti si uniformavano ai diktat. Le altre si rifugiavano nelle imitazioni della “confezione” o ricorrevano ai cartamodelli realizzati dalle sarte o magari da loro stesse.
Nel mentre cominciava la rivoluzione giovanile culturale e vestimentaria che avrebbe abbattuto il vecchio sistema. Elio Fiorucci, al quale la Triennale dedica da oggi fino al prossimo aprile una mostra, apre a Milano ne 1967 il suo emporio democratico, un melting-pot di idee che annuncia il nuovo corso, in realtà iniziato a Londra con il primo concept-store Biba e compagnia. Con gli anni Ottanta, la Haute Couture diventa sempre più esclusiva, sarti e sartine spariscono dalla scena, travolti dall’inarrestabile volata del nascente prêt-à-porter che aveva saputo mettere insieme la creatività dei singoli, la visione industriale, le istanze giovanili, gli ultimi desideri, l’apertura internazionale, il senso del nuovo design, la voglia di giovinezza fino alla terza età, con le madri che vestivano come le figlie.
La Moda impone ancora le tendenze, più facili, più democratiche, più inclusive, moltiplicate nelle seconde e nelle terze linee degli stilisti, il cui nome si irradia come in un caleidoscopio attraverso profumi, make-up, accessori, oggettistica, borsette e bagagli e via via arredi, hotel, ristoranti, ogni cosa possibile, diventando garanzia di notorietà e quindi di successo. Giorgio Armani si guadagna la copertina di “Time” nel 1982 con tutto quello che significava per l’orgoglio nazionale. Un momento di gloria per lui e per gli “italians” che per fortuna dura ancora grazie al suo talento e alla sua resilienza. Il minimalismo degli anni Novanta non frena il valore della Moda, giunta all’apice del suo potere. Gli stilisti influenzano il lifestyle, sono i nuovi divi e i nuovi demiurghi. Ne conosciamo famiglie e amori, vacanze e passioni (quasi tutti solo lavoro, da veri stakanovisti). Le dive del cinema vengono soppiantate nell’immaginario collettivo dalle supermodel internazionali, lanciate da Gianni Versace, poi richieste da tutti.
Altra tappa fondamentale. Spunta la fast-fashion: Zara e H&M aprono a cavallo del 2000 nelle capitali europee grandi negozi che invitano ad entrare, propongono collezioni continuamente in progress di vestiti alla moda, che costano poco e si rinnovano spesso. Non ogni sei mesi come quelli portati in passerella dal prêt-à-porter. Gli Anni d’Oro volgono alla fine, ma pochi se ne accorgono. Col cambio di secolo entriamo negli Anni del kaos. Sociale, economico, politico, estetico, modaiolo, omnicomprensivo. Internet arriva come un uragano, travolgendo tutte le abitudini e niente sarà più lo stesso. Per i Millennials, nati con il computer messo in mano a pochi mesi per tenerli tranquilli, e fin da adolescenti abituati a girare il mondo e comprarsi l’universo a tocco di clic, tutto quello che è stato prima sembra preistoria. Oggi, come preconizzava Moschino, non ci sono più stilisti che diventino l’emblema di un pensiero esistenziale al quale puoi aderire oppure no, ma “direttori creativi” al soldo dei vari fondi internazionali che li sostituiscono senza scrupoli se i direttori marketing segnalano un calo nelle vendite, e così portano il loro stile a cappello di un altro brand, spulciando negli archivi, e riassortendoli a modo loro.
Come è successo con l’idolatrato Alessandro Michele che da Gucci, dove si era messo in luce per la mixologia incontrollata di pezzi come usciti da un outlet vintage, è passato a Valentino, con un debutto che attinge all’archivio anni Settanta dello stilista cultore della bellezza femminile imprevedibilmente mixato con i volti, i make-up, i tatuaggi e la ferramenta facciale che usano i ragazzi di oggi. La scenografia, arredi velati e pavimento di specchi rotti, come in una casa da lungo tempo abbandonata, sembra evocare fantasmi del passato e una visione pessimistica della moda. Stop The Fashion System! gridava Moschino e molto poco in effetti ne è restato, quando constatiamo come i divi del rock, con le loro ibridazioni e le loro provocazioni che tv e social rimandano a milioni di “spettatori”, siano i primi influencer a lanciare le loro personalissime mode. Quando ci stupiamo di vedere tatuaggi, nudità, metamorfosi di genere diventati linguaggi comuni dell’apparire al di là dell’abito. Quando applaudiamo sfilate spettacolari come un ballo in maschera e ci domandiamo: chi mai metterà quei vestiti?
Tutti narcisi, i giovani si specchiano in sé stessi e creano la propria immagine senza bisogno di ricorrere alle idee degli altri, anzi esaltando la propria diversità. La Moda, come la intendono i baby-boomer che l’hanno creata, non esiste più, slabbratasi nel tempo verso una individualità spinta. Aiutata dalla democratizzazione, dalla self-communication, dall’e-commerce, dalla fast-fashion e ora dalla lowprice-fashion on line dei giganti cinesi come Temu e Shein che ti fanno arrivare a casa l’abito desiderato e alla moda a un prezzo talmente basso da chiedersi come sia possibile. In questo scenario aumentano i vestiti, tanti vestiti, troppi vestiti che oggi ci assalgono da ogni mezzo di comunicazione, un po’ meno dalle riviste femminili, molto di più dalle pubblicità e dallo smart-phone. La moda non ha più ragion d’essere? Non credo. Anche se l’interrogativo esiste. Ma aspetto il momento in cui chi detiene il potere finanziario e industriale se ne accorgerà e darà nuovo slancio, mezzi e fiducia ai giovani creatori visionari che nelle pieghe del sistema lavorano senza clamori, ma che le imprese ignorano perché oggi non vanno di moda le sfide.
Gisella Borioli, giornalista, curatrice, innovatrice della moda e del design, ha affiancato l’artista e art director extraordinaire Flavio Lucchini, divenuto successivamente suo marito, nella direzione di “Vogue Italia” negli Anni Settanta, cofondato “Donna” nel 1980. Nel 1983 ha fondato il Superstudio, oggi ampliato e coordinato nel Superstudio Group: luogo simbolo del Fuorisalone, ha contribuito alla trasformazione del quartiere Tortona di Milano in destinazione cool. Ha appena pubblicato l’autobiografia “Volevo essere felice” (ed: il mio libro). Lavora fra Milano e Dubai.