Il governo che più mostrava di voler valorizzare la produzione e la ricerca mette in mora retroattivamente migliaia di imprese sul bonus ricerca, cuore pulsante della creatività. Un corto circuito pericoloso, che mina la fiducia di migliaia di imprese. Necessaria una cabina di regia
Il 31 ottobre è trascorso senza che arrivasse l’approvazione di uno stralcio, per il quale mancavano le coperture; di una proroga, che avrebbe dato il tempo di trovarle, insomma di un minimo segno di apertura da parte del dicastero guidato da Giancarlo Giorgetti, dicono particolarmente riottoso sul tema. Migliaia di imprese sono andate in mora. E dunque, adesso, queste stesse imprese si preparano a dare battaglia al governo sui crediti di imposta legati alla ricerca e sviluppo per il periodo 2015-2019: nel fermano, dove si concentra il calzaturiero maschile, la quota di aziende che sceglierà la strada del contenzioso arriva al novanta per cento, e la stessa percentuale si calcola per le imprese della pelletteria. Per questi crediti, che per la sola moda assommano a circa un miliardo, è stata chiesta la restituzione su base volontaria, a fronte di un contributo in conto capitale pari a circa 190 milioni di euro, da distribuire nell’arco di tre anni, ufficialmente per “rimborsare” (in realtà solo parzialmente, visto che l’ammontare è ben superiore) le imprese che hanno riversato volontariamente, in percentuale a quanto restituito.
Che il ministero dell’economia e delle finanze avesse trovato nella misura, peraltro in discussione da tempo, un insperato gruzzolo, è evidente dai dati elaborati dall’Ufficio parlamentare di bilanci: includendo tutte le imprese italiane che hanno beneficiato della misura nello scorso decennio, dunque non solo quelle del settore moda, in cinque anni il numero di beneficiari del credito d’imposta è quasi triplicato, passando da 10.268 nel 2015 a 27.072 nel 2019. Secondo l’Istat, l’ammontare cumulato del risparmio d’imposta per le imprese beneficiarie del tax credit in ricerca e sviluppo e del patent box è salito dallo 0,04 per cento del Pil nel 2015 allo 0,28 per cento nel 2019, pari a circa 5 miliardi, in flessione allo 0,18 per cento nel 2020. Ma sono molte le rilevanze e le incongruenze di questa norma dal punto di vista giuridico, e dunque ecco spiegata la raffica di ricorsi che, oltre a rallentare l’attività da ambo le parti, rafforza innanzitutto il sentimento di crisi e la sfiducia di un comparto già duramente provato dalle guerre in corso, dalla diminuzione del potere di acquisto della classe media, dalle prevedibili norme protezionistiche in arrivo dal nuovo governo degli Stati Uniti (secondo gli ultimi calcoli, diffusi da Skytg24, l’impatto sul Pil italiano sarebbe dal +0,7 per cento della situazione attuale al -1,3 per cento se venissero applicati i dazi, in parole povere andremmo in recessione).
La moda, della quale questo stesso governo vanta dal giorno stesso della nomina lil grande potere economico e di immagine, si trova a dover fare i conti con una norma retroattiva dal sapore, permettetemi di scriverlo, non solo incredibilmente superficiale cioè ignaro delle dinamiche specifiche, ma anche profondamente moralista, perché ritenere che la dimensione estetica nella ricerca moda, perché nuovi campionari e collezioni (anche) questo sono, sia un surplus irrilevante, e dunque immeritevole di supporto, rappresenta una posizione del tutto simile a quella di Catone il Censore che per primo, nel 215 avanti Cristo, emanò una legge contro il lusso perché aveva bisogno di coprire il debito della seconda guerra punica: la Lex Oppia Sumptuaria, potete andare a cercarvela anche su Wikipedia che, immagino il dettaglio non vi stupirà, andava a colpire solo gli acquisti e lo sfoggio femminili, perché i senatori potevano continuare a vestire di porpora.
All’epoca si trattava però e perlopiù di beni di importazione; in questo caso è il contrario. L’Italia trattiene una quota minoritaria dei beni che produce, e la moda rappresenta, o forse ormai rappresentava, la prima voce nella bilancia dei pagamenti. Per certi versi è una sicurezza che certe dinamiche non cambino mai, benché forse, duemila e trecento anni dopo, forse bisognerebbe riflettere sul fatto che andare a colpire la ricerca e lo sviluppo nella moda, che significa nuovi tessuti (anche sostenibili, naturalmente), nuove soluzioni nella prototipia, sviluppata ormai in percentuale sempre maggiore attraverso l’intelligenza artificiale (da cui nuove opportunità di lavoro per i giovani, per inciso), nuovi tagli che siano desiderabili per il mercato mondiale (ed ecco valorizzate le famose professioni artigianali di eccellenza che questo governo cita da mattina a sera), equivale, cito il primo esempio che mi viene in mente, a danneggiare la ricerca attorno a un nuovo motore, o lo studio di una nuova randa in un cantiere navale. In ogni caso, l’ultima norma che la moda si sarebbe aspettata da un governo che ha addirittura cambiato la denominazione di un ministero per infilarvi la nozione di Made in Italy – “Ministero delle Imprese e del Made in Italy”, avete presente, via Veneto, nell’atrio mirabile disegnato da Marcello Piacentini talvolta si tengono mostre atte a valorizzare la bellezza del manufatto nazionale, cioè la sua utilità e la sua incomparabile estetica – è che avrebbe assestato un colpo pressoché mortale alla continuità di questa stessa inarrivabile estetica. La misura in questione, come scrivevo nelle prime righe, è in discussione in realtà da diverso tempo, e da tempo le associazioni di categoria si erano attivate per scongiurare la sua applicazione, evidenziandone innanzitutto la profonda ingiustizia. La questione dei crediti d’imposta era stata discussa anche nel corso dell’ultimo tavolo della moda, lo scorso 6 agosto, durante il quale il ministro Adolfo Urso aveva garantito il proprio “impegno ad assicurare insieme all’Abi (l’Associazione bancaria italiana, ndr) la rimodulazione dei prestiti bancari, a garantire alle imprese del settore l’utilizzo a pieno delle risorse per gli ammortizzatori sociali e a introdurre una misura saldo e stralcio in merito all’annosa questione dei crediti di imposta”.
Per il saldo e stralcio non si sono trovate, appunto, coperture, ma non si è avuta nemmeno l’accortezza, questa sì politica, di procrastinare con un rinvio fino, per esempio, a marzo 2025, quando forse le coperture sarebbero state trovate e non si sarebbe messo in forse il destino lavorativo di – calcolo per difetto – mezzo milione di persone. “Le associazioni di categoria hanno più volte chiesto che fosse emanata una definitiva applicazione autentica per ripristinare quanto stabilito prima del 2022”, scrive Camera Nazionale della Moda in una nota: “Purtroppo però questo suggerimento, così come quello di arrivare a un ”saldo e stralcio” che consentisse alle aziende di pagare quanto richiesto, sebbene indebitamente, senza rischiare default aziendali, non ha avuto seguito ed è stato introdotto solo un contributo in conto capitale”. L’unica nota positiva in questo deplorevole episodio è la ritrovata compattezza delle associazioni di settore, e in particolare della (ex) Confindustria Moda, da tempo divisa fra il raggruppamento di imprese attive nell’accessoristica, oggi riunite in Confindustria Moda Accessori, e SMI, l’associazione dei tessutai. Insieme, dopo un anno, hanno chiesto “chiarezza e certezza giuridica”, dichiarando di voler “supportare le aziende rappresentate anche in questa complessa vicenda”, e insieme faranno causa.
Ad aumentare la confusione, e l’idea che la maggioranza di governo non sia compatta come vuole apparire, arrivano però segnali di natura diametralmente opposta. Poche ore fa, la Regione Lombardia, attraverso l’assessora al Turismo, Moda, Design, Marketing Territoriale e Grandi Eventi, Barbara Mazzali, ha lanciato il progetto “Artigiani 4.0”, un percorso di accelerazione sviluppato con Upskill 4.0, spin-off dell’Università Ca’ Foscari Venezia guidato da Stefano Micelli (Cà Foscari lavora molto su questo segmento, notoriamente, da anni), che ha l’obiettivo di “unire la tradizione con le tecnologie 4.0 per creare nuove opportunità, celebrando il talento artigianale lombardo”.
Il progetto, che per il momento ha individuato undici imprese artigianali, non è necessariamente votato alla valorizzazione della moda, tanto che, oltre al cravattificio Fumagalli, il più antico d’Italia, fra i nomi scelti spiccano quelli di Bonacina 1889, che produce mobili in rattan, e del leggendario produttore di biciclette Cinelli. Ma il desiderio, espresso da Mazzali, di “voler dare visibilità e sostegno a realtà che rappresentano il cuore pulsante della nostra economia”, favorendone “l’apertura al futuro attraverso l’innovazione”, rappresenta, con i suoi aiuti materiali e di sostegno strategico, una linea di continuità rispetto alle promesse del governo in sede di insediamento, e l’esatto opposto della linea sostenuta dal ministero dell’economia. Un piccolo, ennesimo scontro fra Fratelli d’Italia, di cui Mazzali fa parte, e Lega, che molto si affida a Giorgetti. Si attendono lumi. E, magari, l’istituzione di una efficace cabina di regia, che non mandi a gambe il secondo settore economico più rilevante per l’Italia.