Manovra pro lavoratori e anti imprese: la Cgil sciopera e Confindustria approva

Secondo l’Upb, con la legge di Bilancio il governo nel triennio dà 55 miliardi a lavoratori e famiglie mentre toglie 13 miliardi a imprese e autonomi. Landini scende in piazza, mentre Orsini tiene buoni rapporti con Meloni

Parafrasando Pascal, si può dire che la politica ha le sue ragioni che la ragione non conosce. La situazione, sulla legge di Bilancio, è questa: il governo ha da poco presentato una manovra che favorisce i lavoratori e penalizza le imprese, ma i sindacati scioperano e le organizzazioni datoriali applaudono.

Non sono matti, ognuno ha le sue motivazioni per sostenere la propria posizione, ma sono appunto ragioni politiche. Perché i freddi numeri mostrano un quadro che non corrisponde alle azioni. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), che ha passato al setaccio l’impatto della manovra, i principali beneficiari sono le famiglie con un guadagno netto di 55 miliardi nel triennio 2025-27, soprattutto in ragione degli interventi a favore dei lavoratori dipendenti. Al contrario, nel biennio 2025-26 l’impatto netto su imprese e autonomi è negativo di circa 13 miliardi (6,4 miliardi annui), riporta l’Upb.

Il trasferimento netto a favore di famiglie e lavoratori ammonta a 15,2 miliardi nel 2025, 19,4 nel 2026 e 20,4 nel 2027. Il grosso è la stabilizzazione degli effetti della decontribuzione, che nella legge di Bilancio viene trasformato in un bonus per i lavoratori fino a 20 mila euro di reddito e una detrazione fiscale per i redditi tra 20 e 40 mila euro. Le risorse impiegate sono superiori a quelle dello scorso anno perché, per evitare l’enorme salto di aliquota a 35 mila euro che si verificava con la decontribuzione, è stato introdotto un décalage fino a 40 mila euro che estende i benefici ad altri 2,9 milioni di lavoratori, prima esclusi, che riceveranno un beneficio medio di 576 euro annui.

Oltre a questo intervento, che rappresenta il grosso della manovra, ci sono le risorse per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego del triennio 2025-27 (e sono stanziate ulteriori risorse per il 2028-30, escluse dal calcolo dell’Upb). Inoltre ci sono, a favore dei dipendenti, le agevolazioni fiscali sul welfare aziendale e sui premi di produttività. Infine le misure a favore della natalità, come la decontribuzione per le lavoratrici madri. A parte, perché considerati dall’Upb interventi di carattere generale, ma di cui sono beneficiari soprattutto i lavoratori e i pensionati, c’è poi la stabilizzazione del taglio dell’Irpef.

Per imprese e autonomi, come dicevamo, il saldo è negativo di 6,4 miliardi annui. Ma in realtà, il totale è più elevato se si considera anche l’abolizione strutturale dell’Ace (Aiuto per la crescita economica) della scorsa legge di Bilancio, con cui il governo ha sottratto alle imprese 4,8 miliardi nel 2025 e 2,8 miliardi a regime per indirizzarli al taglio del cuneo fiscale dei lavoratori. Tra le entrate ci sono le misure temporanee su banche e assicurazioni (3,5 miliardi), mentre tra la riduzione delle uscite c’è la fine della decontribuzione Sud per effetto di una decisione della Commissione Ue: ma le risorse liberate dall’abolizione della decontribuzione (6 miliardi nel 2025 e 4 miliardi nel biennio successivo) sono andate solo in parte a finanziare un fondo per gli interventi nel Mezzogiorno.

C’è, a favore delle imprese, la proroga della maxideduzione al 120% per le assunzioni incrementali a tempo indeterminato (una misura che, secondo l’Istat, avvantaggia il 5% delle imprese con un taglio del cuneo d’imposta sul lavoro dell’1%); ma di contro c’è il maxi taglio (-4,6 miliardi) del fondo per la riconversione del settore automotive. C’è poi l’estensione della web tax anche alle piccole imprese: una norma che, come hanno sottolineato sia la Banca d’Italia sia l’Upb, penalizzerebbe le pmi e le startup italiane, andando in contrasto con le finalità originarie dell’imposta che puntava a colpire i grandi gruppi multinazionali che pagano all’estero le imposte sulle vendite effettuate in Italia.

Come se non bastasse, oltre alle nuove tasse, il governo Meloni ha introdotto una norma di sapore sovietico che punta a inserire una specie di commissario del Mef nei collegi sindacali di tutte le imprese private che ricevono contributi pubblici, anche indiretti, sopra i 100 mila euro. Su tutto questo il mondo delle imprese – con l’eccezione di Assonime – è stato silente. Si è espressa negativamente Bankitalia, dicendo che la norma prevede “un perimetro di applicazione non precisamente definito e assai ampio, che ne rende ardua l’attuazione”, consigliando di adoperare “altri meccanismi” meno invasivi e più efficaci per controllare l’uso delle risorse pubbliche. Infine ci sono problemi sul fondo Transizione 5.0, considerato farraginoso dalle imprese.

Il paradosso è che, a tutte queste risorse date ai lavoratori, Cgil e Uil hanno risposto con l’ennesimo sciopero generale, mentre la Confindustria non ha sollevato neppure un sopracciglio contro i ripetuti schiaffi ricevuti. Anzi. Il presidente Emanuele Orsini, com’era chiaro sin dalla sua cerimonia di insediamento a cui partecipò Giorgia Meloni tenendo un discorso di tre quarti d’ora, ha impersonato il ruolo di interlocutore privilegiato del governo. Per la manovra Orsini ha avanzato due richieste: l’Ires premiale per le imprese che investono e un “Piano casa” per i neoassunti. Entrambe respinte.

Ma il rapporto privilegiato col governo non è in discussione. Agli imprenditori insoddisfatti non resta che andare in piazza insieme a Landini e Bombardieri.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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