La sconfitta di Harris è più grande di lei. Il fallimento delle politiche identitarie e il “change” offensivo

La battaglia dei sessi che non si poteva vincere e le altre sconfitte della vicepresidente americana: inflazione e immigrazione. Cosa ha determinato il ritorno di Trump e la sua vittoria in tutti gli stati in bilico

Washington, dalla nostra inviata. Kamala Harris non si è presentata sul palco allestito alla Howard University nella notte elettorale che doveva essere una festa ed è stata una catastrofe, e molti non hanno capito la scelta, ancor più perché ci è tornata ieri pomeriggio per il discorso dei saluti e delle prime spiegazioni. Questa sconfitta è molto più grande di lei, è il fallimento di un partito – un fallimento strategico e ideale di cui la vicepresidente è stata il volto ripescato all’ultimo momento e quindi meno colpevole. Il suo popolo, nell’alma mater che Harris ha nel tempo scelto come trampolino e rifugio, aveva soltanto bisogno di sentirsi dire da lei: ci abbiamo provato, mi dispiace non avercela fatta. Sarebbe bastato perché è davvero tutto molto più grande degli errori che può aver fatto Harris, è tutto molto oltre di lei, sta nella disfatta di alcune convinzioni liberal e della scommessa sulla cosiddetta coalizione obamiana che non soltanto non c’è più, ma sembra ribellarsi al suo demiurgo.


Gli americani hanno deciso di “girare pagina” – in tutti gli stati, non soltanto in quelli in bilico: le percentuali di vittoria repubblicana negli stati sicuri democratici sono preoccupanti, come in New Jersey e New York – nel modo opposto rispetto a quello che si augurava Harris quando ripeteva questo slogan nei comizi: gli americani hanno detto basta con il governo dei democratici, di cui lei è vicepresidente. Molto più spesso di quanto pensiamo la scelta politica è semplice: sono scontento, punisco il governo in carica. Il messaggio di “change” di Harris è stato rifiutato e ritenuto quasi offensivo, non sei il cambiamento solo perché sei più giovane del candidato che c’era prima, che tra l’altro è il tuo capo.


Inflazione e immigrazione, i temi che da sempre sono in cima alle preoccupazioni degli elettori, hanno determinato la sconfitta dei democratici, il paradosso imperdonabile sta semmai nel fatto che l’economia americana è considerata “stellare” (copyright Economist) mentre la grande maggioranza degli americani non lo sente e non lo percepisce, al punto da considerarla più una promessa – una delle tante – che la realtà. Con il senno del poi è facile, ma non è la prima volta che sentiamo dire che l’errore sta nel parlare tanto dei “forgotten” senza trovare il modo di parlare con loro, e questo diventa ancora più punitivo quando ci sono disponibili buoni argomenti. Però questa non può essere considerata una sorpresa: la preoccupazione per l’economia è la più grande e la più persistente e Trump è sempre stato considerato con percentuali nette – 60 a 30 – più adatto a gestirla nel modo corretto. Prima dell’identitarismo viene il portafoglio, lo hanno insegnato al mondo gli stessi democratici durante gli anni Novanta.


“I margini di Trump sono così grandi – scrive Mike Allen nella sua newsletter su Axios – che non possono essere attribuiti soltanto alle posizioni liberal del passato di Harris o al modo e ai tempi della sua selezione o alla gestione dell’Amministrazione della guerra a Gaza”. Così non basta a spiegare la sconfitta il poco tempo che Harris ha avuto a disposizione per costruire la sua leadership e il blame game che è già partito nel partito riguardo a Joe Biden e alle lotte interne al partito. Nella premessa della strategia democratica c’è già la fallacia: Trump non è un incidente della storia, un’anomalia, ma è una forza che ha trasformato l’America, creando “un riallineamento”, come lo definisce Politico. Questa rivoluzione è avvenuta sotto gli occhi di tutti e grazie anche alla spregiudicatezza di Trump.


Si è parlato molto del voto diviso per genere come variabile decisiva, divisione amplificata dal fatto che c’era una candidata donna e che l’abolizione del diritto di aborto ha creato un movimento a trazione femminile per il suo ripristino. Ci si aspettava una grande mobilitazione femminile per Harris, ma non c’è stata: quella che Maureen Dowd sul New York Times definisce “una battaglia dei sessi epica” è stata persa clamorosamente dalla donna, e non perché l’America machista non è pronta a una presidente donna, ma perché le donne d’America non sono andate a votare la candidata donna soltanto in quanto donna. E il paternalismo con cui attori, attrici, politici hanno detto alle donne di sentirsi libere di “tradire” i loro mariti votando diversamente da loro (nel 2024!) e minacciandoli in caso non avessero votato anche loro Harris (Dowd lo chiama meravigliosamente “metodo Lisistrata”) ha deformato ulteriormente una presunzione che si è rivelata sbagliata: il divario di genere, tra i voti degli uomini e delle donne, si è ridotto, da 23 punti nel 2020 a 20, le donne hanno votato il misogino Trump, evidentemente perché hanno priorità diverse rispetto ai diritti riproduttivi e alla battaglia dei sessi.

Lo stesso errore di valutazione riguarda gli altri segmenti chiacchierati in questa campagna elettorale: gli uomini afroamericani e gli uomini ispanici. Sono questi ultimi i più chiacchierati, perché in stati come la Florida – ora iper conservatrice – e il Texas hanno fatto un balzo verso Trump deciso, al punto che ora non si può più dire che gli ispanici siano a maggioranza democratica, come lo sono da sempre. Il dato complessivo è ancora a favore del Partito democratico, ma l’erosione da parte dei repubblicani è costante e in aumento rispetto al 2020. La coalizione identitaria che ha portato i democratici al potere in questo secolo non è più così solida e soprattutto mette l’economia, l’immigrazione e il costo della vita davanti alle preoccupazioni identitarie. Lo stesso hanno fatto gli elettori indipendenti, che intanto hanno ignorato tutti i tentativi bipartisan di Harris, da Liz Cheney in giù. E’ questo che ha determinato il ritorno di Trump, la sua vittoria in tutti gli stati in bilico, la risposta entusiasta dei mercati, assieme alla impermeabilità ai suoi crimini e al suo istinto eversivo.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

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