Il trumpismo è incompatibile con la difesa dell’interesse italiano. I test per Meloni dopo il voto americano

La disgraziata vittoria di Trump può travolgere il nostro paese? Adesso la premier dovrà decidere se schierarsi con l’Europa o cedere all’internazionale sovranista. Un passaggio cruciale per capire di che pasta è fatta la leadership meloniana

Make Putinism Great Again. La travolgente e disgraziata vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane è una tragedia insieme culturale e politica che può generare effetti devastanti, anche fuori dai confini americani, e che mette inevitabilmente in crisi tutti coloro, noi compresi, che provando a osservare il futuro tendono spesso a cercare a tutti i costi un bicchiere mezzo pieno, per provare a spiegare in che modo le crisi si possono trasformare in opportunità. Questa volta, però, il bicchiere mezzo pieno semplicemente non c’è, non esiste, non si vede, e se Trump fosse coerente anche al dieci per cento con le proprie promesse, potrebbe, a voler essere ottimisti, come siamo, sfibrare il tessuto delle democrazie liberali, incoraggiare le teorie complottiste, ridare fiato ai tromboni sovranisti, rianimare le istanze nazionaliste, incoraggiare i movimenti populisti, legittimare gli istinti xenofobi, restituire dignità agli utili idioti del populismo, indebolire l’Europa, scatenare guerre commerciali e lasciare sguarniti avamposti come quello ucraino che hanno permesso all’occidente libero di non sventolare bandiere bianche di fronte ad aggressioni indiscriminate ai paesi liberi e sovrani.

La vittoria di Trump, come si è detto in queste ore, sarà un test sulla capacità degli Stati Uniti di resistere a una forma feroce e violenta di estremismo illiberale che, sempre a voler essere ottimisti, potrebbe spingere gli Stati Uniti, come suggerito giorni fa dall’opinionista conservatore Bret Stephens sul New York Times, a diventare un “regime ibrido”, capace cioè di combinare insieme elementi democratici e autoritari. Ma la vittoria di Trump sarà un test importante anche per l’Europa, ovviamente, e lo sarà soprattutto per l’Italia. E non ci vuole molto a comprendere la ragione per cui l’onda trumpiana sarà un passaggio cruciale per capire definitivamente di che pasta è fatta la leadership di Giorgia Meloni. Il discorso è semplice. Nei primi due anni a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio ha costruito parte della sua credibilità internazionale facendo coincidere in modo pressoché totale la sua agenda di politica estera con quella dell’Amministrazione americana. L’arrivo di Trump, che promette di rivoluzionare la politica estera americana, costringe Meloni a una prima scelta, che non è solo una scelta politica ma è una scelta identitaria. Tema: l’Italia di Meloni è stata a difesa dell’Ucraina per rispondere a un input americano, per così dire, o è stata a difesa dell’Ucraina perché Meloni crede nella difesa delle democrazie liberali e crede che il putinismo sia una pericolosa minaccia per l’Europa? Il secondo tema, il secondo problema, il secondo stress test sulla leadership meloniana, si manifesterà nell’ambito di un’altra dinamica, al centro della quale vi sarà una scelta che il presidente del Consiglio dovrà fare.

Da un lato c’è la scelta, che potrebbe essere dettata dalla paura di lasciare a Salvini lo spazio per far propria l’agenda estremista del nuovo presidente americano, di usare il trumpismo come una scusa per tornare indietro, per tornare a far vivere la Giorgia di lotta, per vestire panni diversi da quelli indossati in questi anni e per strappare a Viktor Orbán lo scettro del commander in chief del trumpismo europeo, anche a costo di cavalcare l’euroscetticismo che in questi anni Meloni ha tenuto a bada. Dall’altro lato, invece, c’è la scelta, più ambiziosa, di non tradire la Meloni di governo, la Meloni che si è parzialmente trasformata negli ultimi due anni, la scelta di giocare un ruolo di cerniera e di mediatrice tra l’America trumpiana e l’Europa anti trumpiana, e di creare una simmetria con il trumpismo soltanto, e si fa per dire soltanto, a livello retorico, investendo ancor di più sull’unico tema che potrebbe permettere a Meloni di dirsi trumpiana senza cambiare la rotta del proprio governo: lotta all’immigrazione illegale e ai trafficanti di esseri umani.

Dalla scelta che Meloni farà si capirà naturalmente se il percorso imboccato in questi anni dalla presidente del Consiglio è stato frutto di una svolta personale, di una discontinuità con il proprio passato, o è stato frutto di un algoritmo opportunistico, legato solo alla volontà di non sfigurare di fronte all’alleato americano. Ma si capirà anche qualcosa di ancora più importante che riguarderà una scelta che Meloni potrebbe essere presto costretta a fare: se davvero Trump dovesse essere coerente con le proprie promesse e se davvero dovesse scatenare, come ha già avuto modo di fare durante il suo primo mandato, una guerra commerciale contro l’Europa, e in particolare contro paesi esportatori, come la Germania e come l’Italia, Meloni avrà il coraggio di scegliere la difesa dell’interesse italiano, schierandosi con l’Europa, e sacrificare la difesa dell’internazionale sovranista, schierandosi contro la minaccia trumpiana? La travolgente e disgraziata vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, una tragedia insieme culturale e politica, porterà con ogni probabilità l’America a isolarsi dal mondo, porterà con ogni probabilità l’America a proteggere meno i suoi alleati, porterà con ogni probabilità scintille di entusiasmo tra i nemici della società aperta, porterà con ogni probabilità l’America a incoraggiare gli istinti sovranisti, porterà con ogni probabilità l’Europa a fare i conti con l’assenza di leader in grado di saper promuovere il sovranismo europeista e porterà i leader che si trovano a metà strada tra ciò che sono stati nel passato e ciò che potrebbero essere nel futuro a mostrare di che pasta è fatta la propria leadership e a decidere se sventolare o no bandiera bianca di fronte a un’America pronta a far suonare in Europa uno slogan pericoloso, letale, e tutt’altro che irreale, anche per gli ottimisti come noi: semplicemente, Make Putinism Great Again.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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