Per la notte elettorale che ha eletto Donald Trump la seconda volta come presidente, il Metropolitan Republican Club ha svolto il ruolo di quartier generale repubblicano nella grande mela. L’attesa speranzosa e i boati a ogni stato in bilico assegnato
New York. Il Metropolitan Republican Club è il più antico Club del “Grand Old Party” negli Stati Uniti d’America. Solitaria mosca bianca in una città che è sempre e tenacemente democratica, resiste dal 1902 nel cuore di New York riunendo attivisti, senatori, deputati repubblicani e accogliendo presidenti come Ronald Reagan, che appare orgogliosamente in una foto ad accogliere i visitatori all’ingresso. Per la notte elettorale che ha eletto Donald Trump la seconda volta come presidente, ha svolto il ruolo di quartier generale repubblicano nella grande mela. Tra le mura in legno da club anglosassone del secolo scorso, busti e ritratti di presidenti repubblicani degli Stati Uniti guidati da Abramo Lincoln, il boato ad ogni stato in bilico strappato da Trump è stato sempre più clamoroso. Liberatorio, quando per prima Fox News ha annunciato la Pennsylvania dipingersi di rosso e Donald Trump come 47esimo presidente. Dobbiamo dirci la verità, se il risultato che ha visto la netta vittoria non era atteso nei numeri annunciati fino all’ultimo giorno dai sondaggi, l’aria che si respirava tra i repubblicani e in America era quella. Perfino in stati e città democratiche fino al midollo come Los Angeles e New York erano tanti, gli insospettabili che dichiaravano di votare Trump. Immigrati, minoranze, soprattutto la classe media e più povera.
Gli ultimi, che nella narrazione democratica non avrebbero mai potuto votare un candidato come Donald Trump e che invece tanti hanno eletto come eroe: strozzati da un’inflazione galoppante e dal crollo del potere d’acquisto, individuando a torto o ragione come causa un’immigrazione fuori controllo all’interno, il libero scambio con paesi dove la manodopera non costa all’esterno. Un cocktail che unito alla sempre più affaticata leadership americana nel mondo avrebbe infiacchito proprio le classi più povere, aprendo una breccia nel voto delle minoranze che una volta era compatto a favore dei democratici, e che oggi si è trasformato in molte contee in un consenso a favore dei repubblicani capace di riportare Trump alla Casa Bianca. Così nel Club repubblicano di New York oltre a tanti dirigenti del partito si sono ritrovati insieme, fotografia del voto nel paese, anche ricchi professionisti in gessato e poveri operai in jeans, uniti dalla speranza di un futuro diverso. Gli americani chiedevano di cambiare, molto banalmente, al di là di qualsiasi e sempre utile analisi sociale. Era questo l’unico vero dato utile fatto emergere dai sondaggi, per scoprire come sarebbero andate le elezioni: ben più di qualsiasi punto in più o meno di un candidato o dell’altro, di questo o di quell’altro stato in bilico. E’ la propensione al cambiamento a determinare gli esiti di un voto, e come riportato dal New York Times nei suoi sondaggi affidati al Siena College, oltre due americani su tre chiedevano di cambiare.
Non è un caso che nelle ultime settimane Kamala Harris abbia cambiato radicalmente lo stile della propria campagna, prendendo sempre più le distanze da Joe Biden e parlando di voltare pagina. Da attuale vicepresidente non era credibile a farlo, naturalmente, o almeno non lo era tanto come Donald Trump. Gli americani chiedevano di cambiare e lo hanno dimostrato nel modo più semplice e democratico che esista: il voto. Hanno mostrato in modo plastico che vince non chi ha più endorsement sui social media, più vip dalla propria parte o più soldi per fare la campagna elettorale: vince chi raccoglie più voti. Quel popolo che che va al supermercato e guarda il prezzo del pane e del latte, scoprendo quanto incida sulle proprie tasche l’aumento subito negli ultimi quattro anni. Ha vinto Donald Trump, restituendo anche a quel club di New York che è il più antico d’America l’orgoglio di essere qualcos’altro, oltre all’ultimo dei mohicani.